Archivio per novembre 2006

Il concetto di Dio e la sua evoluzione 4   Leave a comment


L’uomo trasferisce le sue passioni e qualità nell’idolo. Più egli si svuota, più l’idolo si ingrandisce e si fortifica. L’idolo è la forma alienata dell’esperienza dell’uomo di se stesso 27. Adorandolo, l’uomo si adora. Ma adora di sé un aspetto parziale e limitato: la sua intelligenza, la sua forza fisica, il potere, il successo ecc. Identificandosi con un aspetto par­ziale di se stesso, l’uomo si limita a questo aspetto, perde la sua totalità come essere umano e arresta il suo sviluppo. Egli dipende dall’idolo perché solo sottomettendovisi trova l’ombra, anche se non la sostanza, di se stesso.

L’idolo è una cosa, e non ha vita. Dio, al contrario, è un Dio vivente. «Il Signore peraltro è il vero Dio, lui il dio vivente» (Gr. 1O: 1O); oppure « L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente» (SI. 42: 3). L’uomo, cercando di assomigliare a Dio, è un sistema aperto, che si avvicina a Dio; l’uomo, sottomettendosi agli idoli, è un sistema chiuso, che diventa egli stesso una cosa. L’idolo è privo di vita; Dio è vivo. La contraddizione tra idolatria e il riconoscimento di Dio è in ultima analisi, tra l’amore per la morte e l’amore per la vita 28.

Ricorre molte volte il concetto che l’idolo sia una cosa fatta dal­l’uomo, l’opera delle sue mani che egli adora e davanti a cui si prostra. « Cavano l’oro dal sacchetto» dice Isaia «l’oro pesano sulla bilancia: pagano un orefice. e si fanno un dio, che venerano e perfino adorano. Lo prendono a spalla e lo portano, lo rimettono poi sulla base: lì sta fermo, né si muove dal suo posto, lo si invoca anche,ma non risponde, dalle angustie egli non lo libererà» (Is. 46: 6-7). Gli orefici ne fanno un dio – un dio che non può muoversi, né rispondere, né essere respon­sabile, un dio che è morto; a cui l’uomo può sottomettersi, ma con cui non può comunicare. Isaia fa un’altra descrizione dell’idolo, forte­mente ironica:

« Il fabbro lavora il ferro ai carboni, gli dà forma con martelli e lo rifinisce col suo vigoroso braccio. Soffre la fame; la forza gli vien meno. Se non beve acqua è sfinito. Il falegname stende il regolo, trac­cia un’immagine col gesso, la lavora con scalpelli, misura col com­passo, ne ricava una figura umana, una bella figura di uomo da tenere in casa. Uno aveva tagliato per lui dei cedri, preso un leccio o una quercia; per lui li aveva fatti crescere robusti nella selva; aveva pian­tato pure un frassino che la pioggia fece crescere. Era veramente per l’uomo legna da ardere. Ne prende una parte e si scalda, appicca pure il fuoco e cuoce il pane, ma anche fa un dio e l’adora, ne forma un idolo e gli si prostra innanzi. Una metà ne brucia nel fuoco, sulla cui brace cuoce la carne, mangia l’arrosto a sazietà e anche si scalda, poi esclama: ‘Ah! mi riscaldo, mi godo il fuoco!’. Il resto egli lo trasforma in dio, nel suo idolo: gli fa l’inchino, l’adora, lo prega, dicendogli: ‘Salvami, perché sei il mio dio!’.

Non comprendono e non capiscono. I loro occhi sono coperti per non vedere, la loro mente per non capire.

Egli non riflette. Non ha scienza, né intelligenza per dire: ‘Una parte ne ho bruciata nel fuoco, e sulla brace ho cotto persino il pane, arrostito la carne che ho mangiata. Come trasformerò il resto in abo­minio e m’inchinerò a un oggetto di legno?’ ».

Isaia 44: 12-19

In effetti, la natura dell’idolatria non si potrebbe presentare più dra­sticamente: l’uomo adora degli idoli che non può vedere, e chiude gli occhi per non  vedere.

Lo stesso concetto viene espresso molto bene nel Salmo 115: « [Gli idoli] hanno mani ma non palpano, hanno piedi ma non camminano, la loro gola non emette alcun suono. Siano come loro quelli che li fabbri­cano ». Con queste parole il salmista esprimeva l’essenza dell’idolatria: l’idolo è morto, e così è morto colui che lo fabbrica. Forse non è casuale il fatto che l’autore del salmo, che probabilmente aveva un profondo sen­so dell’amore per la vita, scrivesse pochi versi dopo: «Non già i morti lodano il Signore, né quelli che scendono nel silenzio ».

Se l’idolo è la manifestazione alienata dei poteri dell’uomo, e se il modo per mantenersi in contatto con questi poteri è un attaccamento sottomesso all’idolo, ne deriva che l’idolatria è necessariamente incompa­tibile con la libertà e con l’indipendenza. I Profeti definiscono ripetuta­mente l’idolatria un’auto-punizione e un’auto-umiliazione,    (continua)

Il concetto di Dio e la sua evoluzione 3   Leave a comment


(dal libro di Erich Fromm-Voi sarete come Dei-Ubaldini Editore-Roma)

avere senso, poiché un idolo senza nome è una contraddizione in se stesso. Dio se ne rende conto e fa una concessione alla capacità di capire degli ebrei. Si dà un nome e dice a Mosè: « ‘IO SONO COLUI CHE SONO’. Poi disse: ‘Cosi dirai ai figli d’Israele: L’IO-SONO mi ha mandato da voi’». (Es.3:14).                   .

Cosa vuoI dire questo nome particolare che Dio si dà? Il testo ebraico dice EHEYEH asher EHEYEH; oppure «Eheyeh mi ha mandato da voi ».

Eheyeh è la prima persona del tempo imperfetto del verbo ebraico « essere ». Dobbiamo ricordare che in ebraico non esiste un tempo pre­sente, ma soltanto. due forme fondamentali: perfetto e imperfetto. Il presente si può formare con l’uso del participio, come in inglese « I am writing », ma non esiste un tempo corrispondente a « lo scrivo ». Tutte le relazioni di tempo sono espresse da certe alterazioni secondarie del verbo . Di base, un’azione viene vissuta come se fosse finita o non finita, cioè, al perfetto o all’imperfetto. Con le parole che denotano azioni del mondo fisico, il perfetto implica necessariamente il passato. Se ho terminato di scrivere una lettera, la mia azione è finita: è nel pas­sato. Ma con le attività di natura non-fisica, come il conoscere, per esem­pio, la cosa è diversa. Se io ho finito di imparare, non è necessaria­mente nel passato, ma il perfetto di conoscere può – e spesso accade ­significare in ebraico « Conosco completamente », « Capisco fino in fon­do ». Lo stesso dicasi per i verbi come ‘amare’ e simili .

Considerando il ‘nome’ di Dio, l’importanza del Eheyeh sta nel fatto che è l’imperfetto del verbo ‘essere’. Dice che Dio è, ma che il suo essere non è finito come quello di una cosa, è un processo vivente, un divenire; solo una cosa, cioè, che abbia raggiunto la sua forma finale può avere un nome. La traduzione libera della risposta di Dio a Mosè sarebbe «Il mio nome è Senzanome; di’ loro che Senzanome ti ha mandato» . Solo gli idoli hanno un nome, perché sono delle cose. Il Dio « vivente» non può avere un nome. In Eheyeh troviamo un com­promesso ironico tra la concessione di Dio all’ignoranza del popolo e la sua convinzione di dover essere un Dio senza nome.

Questo Dio che si manifesta nella storia non può essere rappresen­tato da nessun tipo di immagine: né da quella di un suono – cioè un nome – né da quella di pietra o di legno. Questo divieto di rappresen­tare in qualsiasi modo Dio è espresso chiaramente nei Dieci Comanda­menti, che proibiscono all’uomo di prostrarsi davanti ad alcuna « scul­tura, né immagine alcuna delle cose che sono nel cielo in alto o sulla terra in basso, o nelle acque sotto la terra». (Es. 20:4). Questo comandamento è uno dei principi fondamentali della ‘teologia’ ebraica.

Sebbene Dio sia stato designato con un nome paradossale (YHWH), anche questo ‘nome’ non deve essere pronunciato «invano », come di­cono i Dieci Comandamenti. Nahamides, nel suo commentario, spiega questo ‘invano’ con il significato di ‘senza scopo ‘; la tradizione ebraica successiva e la pratica religiosa hanno chiarito cosa volesse dire questo ‘senza scopo ‘. Gli ebrei osservanti anche oggi non pronunciano lo YHWH e dicono invece Adonai, che significa ‘mio Signore’; ma non dicono nean­che Adonai se non pregando o leggendo le Scritture, e lo sostituiscono con Adoshem (la prima lettera di Adonai più la parola shem che significa semplicemente ‘nome’) ogni volta che parlano di Dio. Anche quando scrivono Dio in una lingua straniera, per esempio in inglese, un ebreo osservante scriverà ‘G’ d’ per non pronunciare il nome di Dio invano. In altri termini, secondo la tradizione ebraica il divieto biblico di rap­presentare Dio in qualsiasi modo e di servirsi del Suo nome invano, si­gnifica che si può parlare a Dio pregando, nell’atto di unirsi a Dio, ma non si può parlare di Dio per non trasformarlo in un idolo 11. La con­seguenza di questo divieto verrà trattata nel seguito di questo capitolo, riguardo alla possibilità della ‘teologia’.       (Omissis)

Questa discussione sul concetto di Dio ci ha portato alla conclu­sione che nel pensiero biblico e ebraico successivo vi sia solo una cosa che ha importanza, cioè che Dio è. Non si interessa della speculazione sulla natura e sull’essenza di Dio, per cui non esiste uno sviluppo teolo­gico paragonabile a quello maturato nel Cristianesimo. Ma il fenomeno per cui il Giudaismo non ha sviluppato una teologia vera e propria si può capire soltanto se si capisce profondamente che la ‘teologia’ ebraica fu di tipo negativo, non solo nel senso di Maimonide, ma anche perché la conoscenza di Dio è, di base, la negazione degli idoli.

Leggendo la Bibbia ebraica non si può non restare impressionati dal fatto che, sebbene non parli di teologia, il suo punto centrale è la lotta contro l’idolatria.

I Dieci Comandamenti, nucleo della legge biblica, nonostante co­mincino con la dichiarazione « lo sono il Signore, tuo Dio, che ti ho tratto dal paese d’Egitto! dalla casa di schiavitù» (Dio è il Dio della liberazione) stabiliscono come primo comandamento il divieto di idola­tria: «Non avere altri dèi di fronte a me. Non ti fare scultura, né im­magine alcuna delle cose che sono nel cielo in alto o sulla terra in basso o nelle acque sotto la terra; non ti prostrare davanti ad esse e non servire loro» (Es. 20: 3-6).

La battaglia contro l’idolatria è il tema religioso principale che per­corre il Vecchio Testamento dal Pentateuco fino a Isaia e a Geremia. La guerra crudele contro le tribù che vivevano in Canaan e contro molte delle leggi rituali si può capire solo se radicata nel desiderio di pro­teggere il popolo dalla contaminazione dell’idolatria. Nei Profeti questo tema è altrettanto importante, ma invece dell’ordine di sterminare gli idolatri si esprime la speranza che tutte le nazioni rinunceranno all’idola­tria e saranno unite nel negarla.

Cos’è l’idolatria? Cos’è un idolo? Perché la Bibbia vuole sradicare ogni traccia di idolatria? Qual è la differenza tra Dio e gli idoli?

La prima differenza non è quella che esiste solo un Dio e molti idoli. In realtà se l’uomo adorasse un solo idolo e non molti, sarebbe ancora un idolo e non Dio. E, in effetti, quanto spesso l’adorazione di Dio non è stata altro che l’adorazione di un idolo, mascherato da Dio della Bibbia?

Si comincia a capire cosa sia un idolo quando si capisce cosa non è Dio. In quanto valore c scopo supremi, Dio noli è l’uomo, lo stato, un’istituzione, la natura, il potere, la proprietà, le capacità sessuali, né alcun prodotto fatto dall’uomo. Le affermazioni « lo amo Dio », « lo seguo Dio », « lo voglio diventare come Dio» significano prima di tutto « lo non amo, non seguo, non imito gli idoli ».

Un idolo rappresenta l’oggetto della passione centrale dell’uomo: il desiderio di tornare al suolo materno, l’ansia di possesso, di potere, di successo ecc. La passione rappresentata dall’idolo è, allo stesso tempo, il valore supremo del sistema di valori dell’uomo. Solo una storia del­l’idolatria potrebbe rivelare le centinaia di idoli e analizzare quali pas­sioni e desideri umani rappresentano. Basta dire che la storia del genere umano fino ad oggi è prima di tutto storia dell’idolatria, dagli idoli pri­mitivi in argilla e in legno, fino a quelli moderni dello stato, del capo, della produzione e del consumo – santificati dalla benedizione di un Dio idolizzato.

(continua)

Pubblicato 30 novembre 2006 da sorriso47 in Religioni

Il concetto di Dio e la sua evoluzione 2   Leave a comment


fromm

Una volta ancora Dio appare nel testo biblico come il signore arbi­trario che può fare con le sue creature quello che il vasaio fa con un vaso che non gli piace. Poiché l’uomo è ‘malvagio’, Dio decide di di­struggere la vita sulla terra . Questo racconto nel suo svolgersi porta tuttavia al primo importante cambiamento del concetto di Dio. Dio ‘si pente ‘ della sua decisione e vuole salvare Noè, la sua famiglia, e ogni specie di animale. Ma il punto decisivo sta nel fatto che Dio conclude un patto (berit) simbolizzato dall’arcobaleno, con Noè e con tutti i suoi discendenti. «lo faccio un patto con voi, che non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio e non vi sarà più alcun diluvio a distruggere la terra» (Gn. 9: 11). Il concetto del patto fra Dio e l’uomo può avere un’origine arcaica che risale a quando Dio era solo un’idealizzazione dell’uomo, forse non troppo diverso dagli dèi olim­pici greci – un Dio che ha le virtù e i vizi umani e che può essere dagli uomini sfidato. Ma nel contesto in cui i commentatori della Bibbia

hanno inserito la storia del patto, il suo significato non è quello di una regressione a forme più arcaiche del concetto di Dio, ma di un pro­gresso a una visione molto più sviluppata e matura. Il concetto del patto costituisce,in effetti, uno dei passi più decisivi nello sviluppo del Giu­daismo, passo che prepara la strada al concetto della completa libertà dell’uomo, libertà anche da Dio.

Con la conclusione del patto, Dio cessa di essere il signore assoluto: è diventato socio dell’uomo in un contratto, si è trasformato da sovrano ‘assoluto’ a sovrano ‘costituzionale’; è legato come l’uomo alla costi­tuzione; ha perduto la libertà di essere arbitrario, e l’uomo ha conqui­stato la libertà di poter sfidare Dio nel nome delle sue stesse promesse, dei principi stabiliti nel patto. È solo un accordo, ma fondamentale: Dio si obbliga a un rispetto assoluto per la vita dell’uomo e di tutte le creature viventi. Il diritto di vivere è stabilito come la prima legge, che neppure Dio può mutare. È importante notare che il primo patto (nella redazione finale della Bibbia) è tra Dio e il genere umano, non tra Dio e la tribù ebraica. La storia degli ebrei è concepita solo come una parte della storia dell’uomo; il principio del «rispetto per la vita» 4 precede ogni altra promessa specifica a una tribù o nazione particolari.

Questo primo patto fra Dio e il genere umano è seguito da un secondo, tra Dio e gli ebrei 5. Nella Genesi, 12: 1-3, il patto è già indi­cato: «Vattene dalla tua terra, dal tuo parentado, dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti mostrerò. lo farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò glorioso il tuo nome e sarai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti maledi­ranno; in te saranno benedette tutte le famiglie della terra ». In queste ultime parole ritroviamo l’espressione dell’universalismo. La benedizione non servirà soltanto alla tribù di Adamo ma è estesa a tutta la famiglia umana. In seguito la promessa di Dio a Abramo si stende in un patto che promette ai suoi discendenti la terra fra il fiume d’Egitto e il fiume Eufrate. Questo patto si ritrova in un’ampia versione della Genesi : 7.10.

         

L’espressione più drammatica delle conseguenze radicali del patto si trova nella discussione di Abramo con Dio, quando Dio vuole distruggere Sodoma e Gomorra per la loro « malvagità» 6. Quando Dio parla ad Abramo delle sue intenzioni, Abramo gli si accosta e dice: « Farai tu perire il giusto insieme con l’empio? Forse vi saranno cinquanta giusti in quella città. Farai tu perire e non piuttosto perdonerai a quel luogo, per riguardo ai cinquanta giusti che sono in esso? Lungi da te fare una tal cosa, far perire il giusto insieme con l’empio, trattare il giusto alla pari dell’empio; lungi da te. Il giudice di tutta la terra non giudiche­rebbe secondo giustizia ». Allora il Signore rispose: « Se troverò dentro la città di Sodoma cinquanta giusti, per riguardo a loro perdonerò a tutto il luogo ». Abramo replicò « Ecco, benché io sia polvere e cenere, mi permetto di insistere presso il mio Signore. Forse mancheranno cin­que giusti a quei cinquanta. Farai tu perire tutta la città per quei cin­que? » Rispose: « Non la distruggerò se ve ne troverò quarantacin­que ». Ed egli continuò ancora a parlare dicendo: « Forse ve ne saranno quaranta ». Rispose: « Non lo farò per riguardo a quei quaranta ». Dis­se egli ancora: «Di grazia, non si adiri il mio Signore se continuo a parlare: Forse ce ne saranno trenta ». Rispose: «Non lo farò se ve ne troverò trenta ». Disse: «Ecco mi permetto di insistere presso il mio Signore: Forse ve ne saranno venti ». Rispose: «Per riguardo a quei venti, non la distruggerò ». Disse egli: «Di grazia non si adiri il mio Signore se parlo ancora una volta. Forse se ne troveranno dieci ». Ri­spose: «Per riguardo a quei dieci io non la distruggerò ». (Genesi 18: 23-32)

« Il giudice di tutta la terra non giudicherebbe secondo giustizia ».

Questa frase segna il cambiamento fondamentale del concetto di Dio derivante dal patto. Con un linguaggio rispettoso, ma con l’audacia di un eroe, Abramo spinge Dio a osservare i principi di giustizia. Il suo non è l’atteggiamento di un umile che supplica, ma di un uomo fiero che ha il diritto di esigere da Dio che osservi il principio di giustizia. Il lin­guaggio stesso di Abramo si muove con abilità consumata tra rispetto formale e sfida – cioè tra la terza persona singolare ( Non si adiri il mio Signore… ) e la seconda persona « Farai tu perire tutta la città per quei cinque? ».

Con la sfida di Abramo si aggiunge un nuovo elemento alla tradi­zione biblica è ebraica successiva; proprio perché Dio è legato alle norme della giustizia e dell’amore, l’uomo non è più il suo schiavo. L’uomo può sfidare Dio – come Dio può sfidare l’uomo – perché sopra di essi sono i principi e le norme. Anche Adamo ed Eva sfidarono Dio, per disobbedienza, ma dovettero cedere; Abramo sfida Dio non per disobbedienza ma per accusarlo di violare le sue stesse promesse e i suoi principi . Abramo non è un Prometeo ribelle, è un uomo libero che ha il diritto di chiedere, mentre Dio non ha il diritto di rifiutare.

Si arriva alla terza fase dell’evoluzione del concetto di Dio con la rivelazione di Dio a Mosè. Anche a questo punto, però, non tutti gli elementi antropomorfici sono scomparsi. Al contrario, ancora Dio « par­la », « dimora su una montagna », più tardi scriverà la legge su due ta­vole. In tutta la Bibbia Dio è descritto con un linguaggio antropomor­fico. Di nuovo c’è il fatto che Dio si rivela come il Dio della storia e non come il Dio della natura, e soprattutto la distinzione fra Dio e un idolo trova la sua massima espressione nel concetto di un Dio senza nome.

In seguito discuteremo più in particolare la storia della liberazione dall’Egitto. Per ora sarà sufficiente ricordare che nel corso di questo racconto, Dio fa ripetute concessioni alle varie richieste di Mosè: gli ebrei pagani non possono capire il linguaggio della libertà e il concetto di un Dio che si riveli solo come il Dio della storia, senza darsi un nome, e che dice: «lo sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe» (Es. 3: 6). Gli ebrei non cre­deranno in lui: «E Mosè disse a Dio, ‘Ecco, quando sarò giunto dai figli di Israele e avrò detto loro: È il Dio dei vostri padri che mi ha mandato da voi, se essi mi domanderanno, Qual è il suo nome?, che risponderò loro?’» (Es. 3: 13). L’obiezione di Mosè viene accettata. L’essenza stessa di un idolo sta nel fatto che ha un nome; ogni cosa ha un nome perché è intera nello spazio e nel tempo. Per gli ebrei, abitua­ti al concetto di idolatria, un Dio della storia senza nome non poteva (continua)

Il concetto di Dio e la sua evoluzione 1   Leave a comment


Erich Fromm-Voi sarete come Dei-Ubaldini Editore-Roma)

fromm

Il concetto di Dio nel Vecchio Testamento nasce e si evolve di pari passo.. all’evoluzione di un popolo, in uno spazio di tempo di 1200 anni.

Esiste un elemento comune di esperienza riguardo al concetto di Dio, ma c’è un cambiamento costante anche in questa esperienza, e di con­seguenza nel significato del termine e del concetto.

In comune è l’idea che né la natura né i prodotti dell’uomo costituiscono l’ultima realtà o il valore più alto, ma che solo l’UNO rappresenta il valore e lo scopo supremi dell’uomo: ritrovare l’unione con il mondo tramite la poten­zialità delle capacità specificatamente umane di amore e di ragione.

Il Dio di Abramo e il Dio di Isaia hanno in comune le qualità essenziali dell’Unità, tuttavia si differenziano nella stessa misura in cui si diffe­renzia un capo incivile, primitivo, di una tribù nomade, da un pensa­tore universalista di uno dei centri di cultura mondiale un millennio più tardi.

C’è uno sviluppo e un’evoluzione del concetto di Dio che accom­pagnano

lo sviluppo e l’evoluzione di una nazione; hanno un nucleo in comune

ma le differenze che aumentano nel corso dell’evoluzione storica sono così grandi

che spesso sembrano superare gli elementi comuni.

Nel primo stadio di questa evoluzione, Dio è concepito come signore assoluto.

Egli ha creato la natura e l’uomo, e se non li ama può distrug­gere ciò che è opera sua. Tuttavia questo potere assoluto di Dio sul­l’uomo è controbilanciato dal concetto che l’uomo è il suo rivale po­tenziale: l’uomo potrebbe diventare Dio se solo mangiasse dell’albero

della conoscenza e dell’albero della vita.Adamo ed eva

Il frutto dell’albero della cono­scenza dà all’uomo la saggezza di Dio;

il frutto dell’albero della vita la Sua immortalità. Incoraggiati dal serpente, Adamo ed Eva mangiano il frutto dell’albero della conoscenza e compiono così il primo passo.

Dio sente minacciata la sua posizione di supremazia. Egli dice:

«Ecco, l’uo­mo è diventato come uno di noi nella conoscenza del bene e del male. Ora dunque, che egli non stenda la mano e non colga anche dell’albero della vita e ne mangi e viva in eterno…» (Gn. 3: 22).

Per pro­teggersi da questo pericolo Dio scaccia l’uomo dal Paradiso e limita la sua esistenza a un massimo di 120 anni.

L’interpretazione cristiana dell’atto di disobbedienza dell’uomo come ‘caduta’ ne ha offuscato il chiaro significato. Il testo biblico non menziona affatto la parola ‘peccato’; l’uomo sfida il supremo potere di Dio, e lo può fare perché è potenzialmente Dio.

Il primo atto dell’uomo è di ribellione, e Dio lo punisce perché si è ribellato e perché vuole conservare la Sua supremazia.

Deve proteggerla con un atto di forza, scac­ciando Adamo ed Eva dal Giardino dell’Eden impedendo così loro di compiere il secondo passo verso l’essere-come-Dio, mangiando dell’ albero della vita.

L’uomo deve cedere di fronte alla forza superiore di Dio, ma non esprime rimpianto o pentimento. Scacciato dal Giardino del­l’Eden, comincia la sua vita indipendente; il suo primo atto di disob­bedienza è l’inizio della storia umana, perché è l’inizio della libertà umana.

Non è possibile capire l’evoluzione ulteriore del concetto di Dio, se non si capisce la contraddizione inerente al concetto precedente. Sebbene sia il signore supremo, Dio ha creato una creatura che è il suo rivale potenziale; fin dal primo inizio della sua esistenza l’uomo è il ribelle e reca in se stesso, in potenza, la propria divinità. Come vedremo..

più va avanti, più si libera dalla supremazia di Dio e più può diventare come Lui .

Tutta l’evoluzione successiva del concetto di Dio limita il suo ruolo di padrone dell’uomo.(continua)

La Verità storica della Bibbia 5   Leave a comment


vi consiglio di leggere.. La Verità vi farà liberi

Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele

INVENTARE E’ LECITO ?

«La religione ebraico-cristiana si presenta in una forma forse unica che è quella della “rivelazione storica”:

l’autore sacro era costretto a collegarsi a un evento, di cui rico­struiva la dimensione trascendente»

afferma monsignor Gianfranco Ravasi, prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, considerato oggi uno dei più autorevoli esperti di studi biblici.

Ma che cosa succede quando questo “evento”, come dimostra Liverani nel suo libro, non trova un riscontro nei dati dell’archeologia o nella documentazione storica? (intervistatore)

”Intanto,in termini generali , il testo biblico, compreso Il Nuovo Testamento, è un intreccio fra dati storici e interpretazioni. Quindi non è corretto considerare in modo “fondamentali­sta”, cioè prendendoli alla lettera, i dati storici offerti dai testi biblici: per­ché essi sono sempre stati sottopo­sti dall’autore a un’opera di forte ela­borazione e ricostruzione in chiave teologica», risponde monsignor Ra­vasi…«Da una parte va considerato che l’autore del testo biblico vuole coscientemente fornire materiale storico, dall’altra non va dimenticato che il suo intento non è storiografico, bensi religioso».

“Non anche politico? I testi elaborati al tempo dell’esilio babilonese, non costituiscono forse una legittimazione per il progetto degli esuli di riappropriarsi di una patria?” (intervistatore)

«Certo, ma non c’è contraddizione. Una visione religiosa del mondo com­prende anche istanze politiche: nella Bibbia, per esempio, ci sono profeti favorevoli all’istituzione monarchica e profeti contrari”, dice Ravasi.

“Un’operazione come quella con­dotta dal libro di Liverani è legittima, perché il testo biblico può anche es­sere usato solamente come docu­mento storico e quindi sottoposto a criteri di indagine storiografica. Ma occorre tenere conto che non neces­sariamente quello che è confermato dal punto di vista ar­cheologico e documentaristico costituisce “tutta” la verità, né che tutto ciò che non è verificabile in maniera rigorosa può essere considerato puro mito”

Salomone, il grande re saggio

(Figlio di David e Betsabea Salomone segna, nella narrazione biblica, il momento di massimo successo politico degli Ebrei.

Succeduto al padre su un trono comprendente tutte le 12 tribù di Israele, Salomone avrebbe allargato i confini del regno fino a farne una potenza regionale. Ma la pretesa che si estendesse dall’Eufrate al “torrente d’Egitto” (oggi Wadi Arish) rivela l’anacronismo: questi sono i confini della satrapia  persiana della Transeufratene, istituita però secoli dopo.

La descrizione biblica del grande tempio edificato da Salomone non è credibile: nella Gerusalemme del tempo, una città piccolissima, non ci  sarebbe stato neanche lo spazio per erigerlo.

Ha poi tutta  l’apparenza di una favola il viaggio della regina di Saba, che parte dal regno dei Sabei  (un territorio dell’odierno Yemen) per far visita a  Salomone accompagnata dai suoi cortigiani con doni preziosi per  saggiare la sapienza e l’intelligenza del grande”re Israelita”.

Salomone è forse una figura storica,    ma del suo nome, non c’è traccia in nessun documento al di fuori della Bibbia.)

 

«Liverani usa il termine “invenzione”, a mio parere infelice, per eventi fondamentali contenuti nella narrazione biblica.

Ma poi lui stesso riconosce che esistono nuclei di verità sto­rica che precedono quelle “invenzioni”:

così scrive che il Decalogo contiene materiali da collocare nel passaggio fra la tarda Età del Bronzo e l’Età del Ferro, e che i racconti sui Patriarchi hanno riscontro in antiche tradizioni palestinesi.

Quanto all’Esodo e alla conquista della Palestina, l’idea di fondo è sicuramente più antica dell’esilio babilonese: è pre­sente nei profeti dell’VIII secolo a.C., come Osea e Amos.

E non c’è ragione di dubitare che Salomone abbia costruito il Tempio.

In conclusione, nei racconti della Bibbia gli eventi storici sono sì fortemente rielaborati e ricostruiti, e forse in alcuni casi anche creati ex-novo,

secondo le esigenze della comunità ebraica dopo l’esilio babilonese.”Ma non si tratta di invenzioni pure e semplici “….insiste il biblista

 

Ognuno tiri le proprie conclusioni.

Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele   Questo testo riconduce la nascita d’Israele alla sua realtà storica. Tenendo assieme la critica letteraria dei racconti biblici, l’apporto dell’archeologia e dell’epigrafia e i criteri della moderna metodologia storiografica, Liverani riporta i materiali testuali all’epoca della loro redazione, ricostruisce l’evoluzione delle ideologie politiche e religiose in progressione di tempo, inserisce saldamente la storia d’Israele nel suo contesto antico-orientale. Emergono così la storia normale dei due piccoli regni di Giuda e d’Israele, analoga a quella di tanti altri piccoli regni locali, e la storia inventata, che gli esuli giudei costruirono durante e dopo l’esilio in Babilonia. Gerico non è crollata al suono delle trombe di Giosuè, la conquista della Terra Promessa non è mai avvenuta così come narrato, Salomone non aveva un grande regno e forse il Dio del Sinai un tempo aveva anche una compagna. Il libro di Mario Liverani, sintesi di lavori in corso da anni tra gli archeologi israeliani e non, è fatto per provocare una scossa a quanti si sono nutriti per decenni di quel filone che nel dopoguerra fu trionfalmente inaugurato da testi come “La Bibbia aveva ragione” di Werner Keller. (Marco Politi, “La Repubblica)

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