Archivio per ottobre 2008

nè rossi… ne neri..ma libberi pensieri..   Leave a comment


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Ma Achille Serra ..Prefetto..cosa ci stà a fare nel PD..

Scontri di Piazza Navona
La verità monca del governo

Una serie di immagini dimostrano che prima i giovani di estrema destra
picchiano a sprangate alcuni studenti medi senza che nessuno intervenga
di ANDREA DI NICOLA

ROMA –

“Uno scontro, anzi un assalto dei centri sociali contro i ragazzi pacifici di Blocco studentesco.

La verità costruita dalla polizia e confezionata dal governo è bell’e pronta per andare in onda su Tg e televisioni.

Tutto vero: gli universitari sono entrati in piazza Navona ed hanno affrontato i neofascisti di Blocco studentesco.

Tutto vero, ma solo una parte della verità.

Una parte perché non dice cosa è successo in quella piazza romana prima dello scontro.

Non dice insomma, come ricostruito da un ragazzo che ha scritto a Repubblica e come testimoniato da decine di  foto,

che, prima dell’azione degli universitari,

un camioncino pieno di mazzieri aveva aggredito a cinghiate e a sprangate

gruppi di quindicenni che fino a quel momento avevano giocosamente, accompagnati dai loro professori, contestato il decreto Gelmini.

Dal famigerato pulmino bianco sono scesi studenti, molti evidentemente fuoricorso, che a botte e calci si sono posizionati nel cuore dell’assembramento di ragazzini delle medie superiori spargendo violenza e terrore allo scopo di connotare a destra la protesta studentesca.

 Solo a questo punto intervengono gli universitari chiamati dai più giovani per cercare una difesa che la polizia non ha saputo offrire.

Dal corteo della Sapienza arriva un gruppone, a mani nude tanto che per attaccare usano i tavolini e le sedie dei bar che trovano in piazza e inizia il confronto con i neofascisti.

Per motivi “oscuri “le forze dell’ordine si accorgono solo di questa seconda fase..

della prima.. dell’attacco ai liceali da parte di Blocco studentesco.. non si accorgono.

I funzionari di polizia, che pure non erano distanti da dove avveniva il macello dei diritti, dicono di non essersene accorti

e non ne fanno cenno nelle loro ricostruzioni.

Tanto meno ne fa cenno in Parlamento il sottosegretario Nitto Palma

vendendo al Parlamento e al Paese una verità monca

che però le tecnologie smontano nel giro di poche ore.

Le foto parlano chiaro e, a meno che questo non sia un Paese di maestri di Photoshop, ci dicono che quella del governo e della questura è una verità monca.

Quasi una menzogna.
(31 ottobre 2008)

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Perché lo Stato non mi ha difeso?

”Sono uno studente del liceo Tasso che il 29/10/08 si trovava a manifestare a piazza Navona contro la riforma Gelmini,

una manifestazione pacifica con cori simpatici assolutamente non violenta

quand’ecco che si avvicina un camioncino con musica a tutto volume

che vuole raggiungere la testa del corteo, ma non c’è posto per avanzare…

gli studenti sono troppi non possono smaterializzarsi,

allora ecco che la tensione cresce, inizia una discussione con questi nuovi venuti,

tutti ventenni di blocco studentesco,

capisco che aria tira e mi metto ad osservare la scena in una postazione più defilata

anche se mi sembra assurdo che si possa arrivare ad uno scontro violento,

siamo ragazzi e ragazze la maggior parte quindicenni,

addirittura scolaresche accompagnate dai professori

e poi questi cantano “nè rossi nè neri ma liberi pensieri”.

Ma alla fine di questo coro si scatena la violenza,

lo squadrismo di questo gruppo di esaltati dichiaratamente neofascisti.

I ragazzi di Blocco fanno spuntare manganelli, catene, coltelli, spranghe, un vero e proprio arsenale passato magicamente inosservato alla polizia;

é il panico caricano chiunque trovino di fronte,

un ragazzo prova a difendersi..

è circondato da 10 persone e massacrato di botte, chi può si rifugia nei bar,

cerca scampo a questa violenza cieca scatenatasi tutt’ad un tratto

davanti all’occhio sornione degli agenti.Con questa prima carica.. Blocco

si assicura la postazione migliore per governare la manifestazione,

noi ragazzi siamo confusi, spaventati, il morale è a terra,

ci si conta per vedere se un amico è rimasto ferito.

Quelle bestie di blocco intonano ironicamente un coro: “siamo tutti studenti”,

i più temerari rispondono;”siamo tutti anti-fascisti”

e di nuovo parte un’altra carica più feroce che ci sposta ancora più lontano dal centro di piazza navona, ancora feriti, ancora manganellate,

ancora quella noncuranza da parte delle forze dell’ordine che mi sconvolge,

mi atterrisce, perché in un paese democratico non posso essere difeso?

E’ una sensazione stranissima, di smarrimento, lo Stato che avevo sempre creduto dalla mia parte se ne fotte se prendo delle manganellate.

Tutto torna alla “normalità”, Blocco ha ottenuto la postazione che voleva

ma veniamo a sapere che ragazzi dei centri sociali delle università stanno arrivando,

capisco che qui tra poco sarà l’inferno e con i miei amici torno al Tasso dove, inoltre, ci si aspetta un raid di blocco studentesco

ma questa è un’altra triste storia di un paese dove i politici fanno passare

i partigiani per assassini

e i fascisti come vittime.PS. sono venuto a sapere che il governo ha dichiarato che siamo stati noi studenti di sinistra ad aggredire Blocco,

bene o noi siamo dei deficienti

a non esserci accorti che un gruppo che massacra di botte dei ragazzi innocenti

che avevano la colpa di trovarsi lì,

lo fa per legittima difesa

oppure forse siete voi che tentate di vendere ancora una volta

la vostra vergognosa verità

al punto di difendere anche lo squadrismo fascista.
(31 ottobre 2008)

Pubblicato 31 ottobre 2008 da sorriso47 in Popoli e politiche

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un profeta ebreo..parlò al suo popolo..   Leave a comment


LETTERA AGLI EBREI ITALIANI
Franco Lattes Fortini  (1968)

“Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la popolazione palestinese.

E ogni giorno più distratti dal suo significato, come vuole chi la guida.

Cresce ogni giorno un assedio ..

che insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo

– nel medesimo tempo –

distrugge o deforma l’onore di Israele.

In uno spazio che è quello di una nostra regione,

alla centinaia di uccisi, migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati ..

e al quotidiano sfruttamento della forza-lavoro palestinese, settanta o centomila uomini –

corrispondono decine di migliaia di giovani militari e coloni israeliani ..

che per tutta la loro vita, notte dopo giorno, con mogli, i figli e amici,

dovranno rimuovere quanto hanno fatto o lasciato fare.

Anzi saranno indotti a giustificarlo.

E potranno farlo solo in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche delirio nazionale o mistico,

diverso da quelli che hanno coperto di ossari e monumenti l’Europa….

solo perché è dispiegato..

 nei luoghi della vita d’ogni giorno e con la manifesta complicità dei più.

Per ogni donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o padre percosso e umiliato,

ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano che dovranno dire di non aver saputo oppure,

come già fanno, chiedere con abominevole augurio

che quel sangue ricada sui propri discendenti.

Mangiano e bevono fin d’ora un cibo

contaminato e fingono di non saperlo.

Su questo.., nei libri dei loro e nostri profeti..

stanno scritte parole che non sta a me ricordare.
Quell’assedio può vincere. Anche le legioni di Tito vinsero.

Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i ‘falchi’ di Israele –

fra provocazione e disperazione,

i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi,

allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe…

 fra gli applausi di una parte della opinione internazionale

e il silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande.

Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli

fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.
Gli ebrei della Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale antisemitismo è cresciuto

e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana

(unita alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica)

 si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni di fraternità.

Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello Stato di Israele.

E questo è anche l’esito di un ventennio di politica israeliana.
L’uso che questa ha fatto della Diaspora ha rovesciato, almeno in Italia,

il rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in confronto al 1967.

Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla ostilità.
Onoriamo dunque chi resiste nella ragione …

e continua a distinguere fra politica israeliana ed ebraismo.

Va detto anzi che proprio la tradizione della sinistra italiana

(da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti)

è quella che nei nostri anni ha più aiutato, quella distinzione, a mantenerla.

Sono molti a saper distinguere e anch’io ero di quelli.

Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche

fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani?

Coloro che, ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o oscuri, non importa –

credono che la coscienza e la verità siano più importanti della fedeltà e della tradizione,

anzi che queste senza di quelle imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo,

parlino con chiarezza, scelgano una parte, portino un segno.

 Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei palestinesi,

sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca;

o invece trovino la forza di rifiutare complicità..

a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida.

Né smentiscano a se stessi, come fanno,

parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato.

I loro figli sapranno e giudicheranno.
E se ora mi si chiedesse con quale diritto e in nome di quale mandato…

mi permetto di rivolgere queste domande,

non risponderò che lo faccio… per rendere testimonianza della mia esistenza..

o del cognome di mio padre e della sua discendenza da ebrei.

Perché credo che il significato e il valore degli uomini

stia in quello che essi fanno di sé medesimi…

 a partire dal proprio codice genetico e storico

non in quel che con esso hanno ricevuto in destino.

Mai come su questo punto

– che rifiuta ogni ‘voce del sangue’ e ogni valore al passato

ove non siano fatti, prima, spirito e presente;

sì che a partire da questi siano giudicati –

credo di sentirmi lontano da un punto capitale dell’ebraismo

o da quel che pare esserne manifestazione corrente.
In modo affatto diverso da quello di tanti recenti, e magari improvvisati,

amici degli ebrei e dell’ebraismo,

scrivo queste parole a una estremità di sconforto e speranza perché sono persuaso

che il conflitto di Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile

a quei tanti conflitti per l’indipendenza e la libertà nazionali che il nostro secolo conosce fin troppo bene.

Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di una nazione,

come la Francia agì in Algeria, gli Stati Uniti in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan.

Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy

e gli americani quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917,

così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon,

erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri,

una parte angosciosa e ardente della nostra intelligenza, delle nostre parole e volontà.

Non rammento quale sionista si era augurato che quella eccezionalità scomparisse

e lo Stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le sue prostitute.

 Ora li ha e sono affari suoi.

Ma il suo Libro è da sempre anche il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi.

È solo paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana ..

da nuovi occupanti innalzata ..a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio

da cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della città vecchia di Gerusalemme,

tocca alla interpretazione e alla vita di un verso di Dante o al senso di una cadenza di Brahms?
La distinzione fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi,

 è stata rimessa in forse… proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora.

E ci ha permesso di vedere meglio..

 perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte di Gerusalemme

come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti politico-militari

e dello scontro di interessi e di poteri.

Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.
 

Ogni casa che gli israeliani distruggono,

ogni vita che quotidianamente uccidono

e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina,

va perduta… una parte dell’immenso deposito di verità e sapienza

che, nella e per la cultura d’Occidente,

è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora,

 dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti

e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti.

Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil,

ha ricordato che la spada ferisce da due parti.

Anche da più di due, oso aggiungere.

Ogni giorno di guerra contro i palestinesi,

ossia di falsa coscienza per gli israeliani,

…..”a sparire o a umiliarsi inavvertiti …”

sono un edificio,

una memoria,

una pergamena,

un sentimento, un verso,

una modanatura della nostra vita e patria.

Un poeta ha parlato..

 del “proscritto “e del suo “sguardo”..

«che danna un popolo intero intorno ad un patibolo»

Ecco, intorno ai ghetti di Gaza e Cisgiordania

ogni giorno Israele rischia una condanna…

ben più grave di quelle dell’Onu,

un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé,

se non vorrà ubriacarsi come già fece Babilonia.
La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazioni palestinese;

lo è, ripeto,

dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune.

Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio

o luogo di studio e di preghiera

capaci di compensare….

 l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse..

che la pratica della sopraffazione induce..

 nella vita e nella educazione degli israeliani.


E anche in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici.

Uno dei quali sono io.

Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal,

un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi.

Parlino, dunque…ora….o tacciano per sempre..

la figlia di Aldo Moro..   Leave a comment


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Sia benedetto tuo Padre..

che ha dato la sua vita per questo paese..

e benedetta anche tu..per le parole che dici..per quello che fai ..e per quanto hai sofferto..

sei la degna figlia di un tale Padre..

ma che Polizia è ..questa..ah ..ho capito..quella di Cossiga..(ma Achille Serra..cosa ci stà a fare nel PD..)   2 comments


 ma Achille Serra..cosa ci stà a fare nel PD..!!

"Levati Francesco.." (si riferisce a Francesco...uno di Casa Pound)

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Maroni dovrebbe chiarire la  "differenza morale"

che c'è.. tra il comportamento di un delinquente comune..che bastona una persona per sottrargli il portafoglio..

ed il comportamento di un poliziotto che manganella un giovane inerme..

ma forse ho capito da me..

uno lo fà per i soldi..

l'altro lo fà..per convincimenti morali..

Pubblicato 30 ottobre 2008 da sorriso47 in Popoli e politiche

La figlia di Aldo Moro..Maria Fida   1 comment


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 Se papà per miracolo tornasse vivo, lo ucciderebbero ancora e ancora e ancora 

 Sono Maria Fida, la primogenita di Aldo Moro.

La mattina del 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, le Brigate rosse sequestrarono papà,

dopo aver massacrato gli uomini della sua scorta.

Vorrei ricordare i nomi :Domenico RicciOreste LeonardiGiulio RiveraRaffaele JozzinoFrancesco Zizzi.

Lo tennero in una << prigione del popolo>> per cinquantacinque giorni.

Il 9 maggio, poco dopo le 10, il suo corpo senza vita fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in via Caetani.

L’assassinio di mio padre fu un colpo di Stato.

L’ho sempre pensato e l’ho sempre detto. E ne ho pagato il prezzo. 

Avevo compiuto trentuno anni da qualche mese, quando sequestrarono papà.

Luca, mio figlio, aveva solo due anni.

La settimana prima di quel maledetto 16 marzo, passai tutte le notti a piangere. Senza sapere un perché.

Avevo il presentimento che stesse accadendo qualcosa di catastrofico, di irreparabile.

Se dovessi descrivere con un ‘immagine il mio stato d’animo…

ecco, direi che ero sovrastata da una nube rosso sangue.

Si una nube rosso sangue, questa è l’associazione che mi viene spontanea.

In realtà, in famiglia pensavamo che un evento terribile fosse nell’ordine delle cose.

Era come se ce lo aspettassimo, soprattutto dopo il rapimento del figlio di Francesco De Martino, Guido..

Erano tre i personaggi politici che, negli anni precedenti, avevano contribuito a rimettere in gioco il Partito Comunista:

il socialista De Martino, il comunista Enrico Berlinguer e il democristiano Aldo Moro.

Berlinguer non era molto tranquillo, e di recente si è scoperto che nel 1973 avevano tentato di ammazzarlo in Bulgaria, simulando un incidente stradale.

A De Martino, nell’aprile 1977, avevano sequestrato il figlio per impedire al padre di essere eletto Presidente della Repubblica.

E papà, anche se non lo lasciava trasparire , era molto preoccupato.

Noi, in famiglia, lo eravamo più di lui.

Forse fu per esorcizzare quella sensazione di inquietudine, di catastrofe incombente,

che un giorno mi  decisi chiedergli se lui ipotizzava di poter essere rapito.

Ricordo che mi rispose: << Nella vita non si può mai sapere>>

Tradotto dal suo linguaggio ermetico, voleva dire di si.

Non ero preoccupata solo per mio padre, ma più in generale, per il clima politico che si respirava in quegli anni.

Vivevo nell’incubo di una terza guerra mondiale, che sembrava potesse scoppiare da un momento all’altro.

Ma, ripeto, un po’ tutti, in famiglia, erano allarmati.

Nel 1974, mia madre era riuscita a strappare a papà la promessa che avrebbe lasciato la politica.

Glielo aveva chiesto più volte in modo pressante, erano arrivati perfino a litigare, cosa che tra loro non succedeva mai.

Alla fine mia madre era riuscita a spuntarla.

L’anno seguente, però,  nel settembre del 1975, era nato luca.

E papà, di fronte alla nursery, disse alla mamma che gli dispiaceva, ma non poteva mantenere la promessa:

<< Per ricordare la catastrofe che pende sulla testa dei bambini>>, disse proprio così.

Continuò a far politica, perché credeva davvero che un mondo migliore fosse possibile. 

Ricevevamo minacce continue.

Non solo mio padre, ma tutta la famiglia era esposta a intimidazioni e pressioni.

Ricordo il 3 agosto del 1974, altra data infausta della storia italiana.

Papà allora era ministro degli Esteri e avrebbe dovuto raggiungervi in treno a Bellamente,

sulle montagne del Trentino, dove di solito trascorrevamo insieme le vacanze estive.

Era già salito sulla sua carrozza, alla stazione Termini, e il treno stava per partire,

quando all’ultimo momento arrivarono dei funzionari

e lo fecero scendere perché doveva tornare per firmare delle carte-

A causa di quell’imprevisto, perse il treno e fu costretto a raggiungerci in macchina.

Un ritardo provvidenziale, perché quel treno era l’Italicus.

Non ho alcuna prova per dirlo con certezza,

però ho avuto il sospetto che la bomba esplosa poche ore dopo nella galleria di San Benedetto Val di Sambro

avesse come obiettivo proprio lui.

Anche perché già altre volte, un’infinità di altre volte, si era salvato per il rotto della cuffia.

Un giorno esplosero le gomme della sua auto, che andò fuori strada.

A bordo c’ero anche io, ma le conseguenze furono lievi

Qualche tempo dopo accadde di nuovo, e papà  si fece male a un ginocchio.

Dissero che erano ruote da neve usate per camminare su strada, per questo erano scoppiate.

Ma è proprio difficile crederlo.

Qualche tempo dopo, papà soffriva di un malanno da diverse settimane, e stava peggiorando sempre più.

Poi un giorno la mamma, che era infermiera della Croce rossa,

scoprì che alcune medicine con le quali papà veniva curato erano non solo inefficaci,

ma addirittura pericolose, tanto che forse lo stavano avvelenando.

Fece sospendere la cura e papà si riprese. 

Potrei citarvi davvero tanti altri episodi strani, ma ci vorrebbe forse un libro intero….

Vi basti pensare, per capire quale era il clima negli anni che precedettero il sequestro,

a un episodio del 12 dicembre 1969, altra data della nostra tragica storia italiana.

Dopo l’esplosione della bomba di piazza Fontana, a Milano, quella sera stessa,

Luciano Beca, uno dei più stretti collaboratori di Berlinguer, telefonò a mio padre, che era in visita ufficiale a Parigi,

per invitarlo a rientrare in Italia in treno, invece che in aereo.

Era stato proprio Berlinguer , preoccupato per la sua sorte, a dirgli di telefonare a papà,

come lo stesso Barca ha rivelato in tempi più recenti, nella audizione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo.

Il segretario del Pci era convinto che il treno fosse più sicuro dell’aereo.

Piazza Fontana, piazza della Loggia, l’Italicus.

E dopo le stragi, il terrorismo brigatista.

Ricordo mio padre dire alla mamma:<< Noretta, siamo in guerra>>.

Dal 1974, dopo la strage dell’Italicus , papà volle che avessimo una scorta anche noi figli.

La sensazione era che si fosse con tutti e due i piedi nel baratro, solo i talloni rimanevano sulla terra ferma:

sarebbe bastato un nulla per caderci dentro.

Quella sensazione la conoscevamo benissimo. 

Perché l’avevamo vissuta tante altre volte, anche prima di quel 1974.

Ad esempio, nel luglio 1960 durante i moti di piazza contro il governo Tambroni appoggiato dal Msi.

E ancora nell’estate del 1964, all’epoca del <<piano Solo>>, il tentativo di colpo di Stato attribuito al generale Giovanni De Lorenzo.

Ma quelle date erano soltanto dei picchi di tensione.

In realtà, la normalità della nostra famiglia era vivere costantemente nell’attesa di precipitare nel burrone.

Vivevano così i miei genitori, innanzitutto. E poi noi figli, io in particolare che ero primogenita.

Mi sentivo responsabile e volevamo proteggerlo. Facevamo di tutto per non farlo uscire di casa.

Ricordo mia sorella Agnese, piccolissima,  nascondeva la sua tessera parlamentare sotto la cenere fredda del caminetto:

aveva capito che, senza quella, papà non sarebbe potuto partire in treno.

E mio fratello Giovanni, anche lui piccolissimo spesso si addormentava, sdraiato alla porta d’ingresso,

 per impedirgli di uscire. Proprio Giovanni!

Un giorno carpii spezzoni di una conversazione concitata dei miei genitori, che si parlavano in francese.

Quella era la lingua che usavano, insieme al tedesco, quando volevano esser sicuri che noi non capissimo.

Io invece qualcosa afferrai, e ne rimasi sconvolta.

Qualcuno aveva minacciato papà di portare via Giovanni, il mio fratellino adorato,

e di rimandarlo indietro, tagliato a pezzi, in una valigia.

Quell’episodio ha sconvolto la mia infanzia, la mia giovinezza e la mia età adulta. 

Avevamo piena coscienza che papà fosse in pericolo. Tutti quanti, da sempre.

Ma c’era una specie di tacito accordo con la mamma, per cui noi non parlavamo mai di cose pericolose con papà.

E a loro volta, papà e mamma non parlavano mai davanti a noi dei pericoli incombenti.

Ricordo che mamma mandava noi bambine, me Anna, la secondogenita, ai convegni annuali della Dc, a San Pellegrino.

 Voleva che vigilassimo su papà, perché si fidava di noi più di chiunque altro.

Una delle due rimaneva in sala, seduta in prima fila, a controllare che non accadesse nulla a papà mentre parlava;

l’altra, nel frattempo, perquisiva la sua stanza in cerca di eventuali esplosivi o altro.

Saremmo state in grado di riconoscerle, le bombe, perché mamma, reduce dalla guerra, ce le aveva descritte.

E l’ordine che avevamo era che, se avessimo trovato qualcosa, avremmo dovuto subito avvertirla.

Papà non ha mai saputo che noi abbiamo fatto questo per anni,

Una volta, non avevamo ancora finito di perquisire la sua stanza, quando lui arrivò: ci inventammo un la essere, per costringerlo ad andare in farmacia a comprare le medicine.

Eravamo la sua scorta, eravamo della sua vigilanza.

Mamma mi insegnò anche a sparare.

Si, proprio nel luglio del 1960, durante la crisi del governo Tambroni:

ero talmente terrorizzata che mamma mi regalò un flobert, un fucile ad aria compressa  e mi insegnò ad usarlo.

Mi ero spaventata perché , una notte,

Sereno Freato e altri collaboratori di papà, mandati da lui a Torrita Tiberina, dove trascorrevamo l’estate, per portarci via di lì.

Ma la mamma in quel momento non c’era.

Ci dicevano di fare in fretta, la mamma non tornava, e io non sapevo cosa fare.

Intuivo un pericolo enorme e imminente.

E quando finalmente tornò mamma ci portarono a Roma, nella nostra casa di Salita di Poggio San Lorenzo

e dormimmo ognuno con un carabiniere davanti alla porta della nostra camera.

Il rischio doveva essere proprio serio. Perché mamma mi diceva:

<< Se senti dire che è successo qualcosa di pericoloso o di strano, non ti spaventare, vieni diritta a casa>>.

Lei è persona molto serena e gioiosa, ma quando da degli ordini, sono secchi e perentori.

E quello non era un consiglio, ma proprio un ordine. Dal suo tono capivo che era una situazione grave.

Tanto che, come ho già ricordato, dal 1974, papà impose a tutti noi una scorta.

E fu forse l’unica volta che ci ha imposto qualcosa.

Certo non è facile vivere con una scorta, ma diventa sopportabile se si diventa amici di chi si occupa della tua sicurezza.

Per sdrammatizzare, tra fratelli ci si salutava dicendo: << Se ti rapiscono, citofona>>

E infatti, la mattina del 16 marzo andò proprio così: seppi del sequestro dal citofono. 

Che papà fosse un personaggio scomodo era indubbio.

In molti gli rimproveravano la sua politica di apertura ai comunisti di Berlinguer, la sua lungimiranza.

Lui non si arroccava mai su posizioni conservatrici, guardava oltre.

Nella vita in casa invece, era timidissimo, riservato, discreto, ma anche molto divertente.

Il rapporto con me era fatto di sguardi, di sintonia d’intenti, di parole non dette.

 Cercava solo di dissuadermi dalla carriera giornalistica, perché conosceva bene la mia sensibilità e il cinismo di quel mondo,

 come ho sperimentato poi sulla mia pelle, qualche anno più tardi.

Non aveva nessun senso pratico, risolvere dei banali problemi quotidiani, persino aprire un pacchetto, con lui diventava un’esperienza surreale.

Ci metteva a volte delle ore, e capitava persino che si facesse male. Un vero tenerissimo disastro.

Una settimana prima del rapimento, papà era a letto con un raffreddore fortissimo,

e io passavo notti insonni, turbata da quella sensazione di minaccia incombente.

Speravo tanto che il raffreddore lo costringesse a letto e che quindi non potesse uscire.

Abitavamo nella palazzina di fronte ai miei genitori.

Io stavo talmente male, tra l’altro ero provata anche fisicamente a causa di una dolorosissima ernia al disco,

che Luca, mio figlio, quella notte era rimasto a dormire dai nonni.

La mattina del 16 marzo, volevo alzarmi dal letto a tutti i costi, ma non ci riuscivo per il dolore alla gamba,

e mi feci aiutare da mio marito, che mi alzò di peso.

Ero terrorizzata dall’idea che papà portasse Luca con sé, come faceva spesso.

Non so perché proprio quel giorno avevo l’imperativo categorico che non lo dovesse fare.

Arrivai appena in tempo a fermarlo.

Vidi mia madre uscire rapidamente per andare, come ogni giovedì, a insegnare catechismo in parrocchia.

Mio padre era già sulla porta d’ascensore, con Luca in braccio.

Purtroppo, quasi sgarbata:<< Luca oggi deve stare con me!>>.

Lui provò timidamente a resistere, visto che io non potevo nemmeno camminare. Ma fui irremovibile.

Lui si rassegnò, e lessi nei suoi occhi che aveva capito i miei timori.

Entrò nell’ascensore, lo guardai con la consapevolezza che non l’avrei più rivisto.

L’ultimo ricordo  che ho di lui vivo, è il suo sorriso mesto, e il cigolio dell’ascensore che se lo portava via. 

Rimasi sola in casa con Luca. Il tempo era incerto, piovigginava e tirava molto vento.

Avrei voluto portare mio figlio a Capannelle, alla scuola centrale antincendio dei vigili del fuoco, per assistere alla prova generale del saggio ginnico-sportivo, e aspettavo una telefonata di conferma.

Il telefono squillò. Risposi. Ma non erano i vigili del fuoco.

Sentivo, dall’altro capo del filo, una persona piangere, farfugliare parole incomprensibili, non capivo nulla.

Era la signora Ricci, la moglie di Domenico, il carabiniere autista di mio padre che era in servizio quel giorno.

Non accesi la televisione, né la radio per non spaventare Luca.T

elefonai al ministero dell’Interno per sapere cosa fosse successo.

Mi dissero che  era accaduto qualcosa, ma non sapevano cosa.

Quella risposta mi fece immediatamente pensare che lo sapessero e che non me lo volevano dire.

Una conferma, insomma , dei miei peggiori timori.

Erano circa le 9.15 del mattino. Suonò il citofono,

il poliziotto di servizio alla vigilanza che c’era un passante che desiderava parlare con me.

Era assolutamente anomalo che dalla vigilanza ci chiedessero se volevamo parlare al citofono con degli sconosciuti.

 Ma se il poliziotto lo aveva fatto, significava che aveva un motivo serio. Perciò risposi subito di si.

Un signore, non so chi fosse, mi disse: << hanno trucidato tutta la scorta e hanno portato via suo padre>>.

Tutto quello che avevo paventato da sempre, era successo.

Percepivo chiaramente che la situazione era perfino peggiore di quanto avessi mai temuto:

un padre rapito è molto più spaventoso di un padre ucciso,è un’agonia rimandata.

Mia madre fu tra le prime persone ad arrivare in via Fani.

Era  in parrocchia quando qualcuno chiamò un sacerdote per portare l’estrema unzione ai caduti della scorta.

Ed era andata anche lei.

Resasi  conto che non c’era più modo di aiutarli, si era inginocchiata per terra, tra il sangue e i bossoli, a pregare.

In quel momento, io ero a casa, sola con Luca.

Quando mamma rientrò, riuscì a mostrarsi straordinariamente serena, straordinariamente coraggiosa, com’era il suo solito, e perfino rassegnata.

Mi disse, e mi colpi che, rivolgendosi solo a me, usasse il plurale, come se parlasse a tutta la famiglia:

<< Mi dispiace, ragazzi, è colpa mia. Non dovevo permettergli di fare politica>>.

Io le risposi: << Non è colpa tua, si vede che doveva comunque accadere>>

C’era del fatalismo in quella mia risposta.

D’altra parte, avendo fino a quel momento sempre vissuto nell’attesa della caduta nel baratro, non poteva esserci reazione diversa. 

Cercai di rintracciare il resto della famiglia. E intanto, la casa cominciava a riempirsi di amici e parenti, in evidente stato di choc.

Chi piangeva, chi si sentiva male, chi sveniva.

Toccò a  noi soccorrerli e consolarli , farli sedere, dargli i fazzoletti per asciugarsi le lacrime, il caffè, gli ansiolitici e le gocce per la pressione…

Capivo benissimo il loro stato d’animo, anche perché noi eravamo in qualche misura preparati, loro no.

 Tuttavia, mi sembrava troppo e me ne andai con Luca.

Non sapevo, in quel momento, quanto il comportamento delle persone che erano venute a farci visita..

fosse emblematico dell’atteggiamento dello Stato nei nostri confronti da quel giorno in avanti:

la pretesa assurda e arrogante di escluderci persino dal dolore, non solo dal diritto di parola sulle vicende legate al  caso Moro.

Le vittime devono entrare nella tomba insieme al loro congiunto e non apparire mai più,

come le vedove indiane sulla pira funebre. Non devono piangere, né tantomeno parlare

E’ l’ingiustizia esponenziale, il massimo dell’orrore. 

Sin dal primo dei cinquantacinque giorni, avevo come la sensazione che la mamma fosse consigliata

da personaggi non sempre e non tutti in buona fede.

Era solo la mia sensazione , naturalmente.

Alcune persone davano l’impressione di essere state…come dire?…non saprei…ecco …si <<infiltrate>>.

Proprio questa forse è la parola giusta:<< infiltrate>> in casa Moro con lo scopo preciso di dividere la famiglia,

e di conseguenza impedire tutta una serie di iniziative volte alla salvezza di papà.

La famiglia Moro unita era invincibile, per questo, la prima cosa da fare era dividerla.

Ne sono sempre stata convinta..

Però per favore, su questo specifico punto non fatemi altre domande, non voglio dire di più.

Aggiungo solo questo. Il giorno dei funerali della scorta, per esempio, mi fu impedito di partecipare.

Alcuni miei familiari decisero per me che io non dovessi esserci e mi lasciarono a casa.

Io ci andai ugualmente, ma non essendo con altri, quelli del servizio d’ordine non mi riconobbero e non mi fecero entrare nella chiesa.

Rimasi dunque fuori con la folla. Poi vidi passare un anziano poliziotto che a suo tempo era stato scorta di papà,

e lui mi fece entrare.

Mi chiedo ancora oggi perché diavolo non avessi il diritto di partecipare ai funerali di persone che erano care a me quanto agli altri membri della famiglia.

Questa è la mia verità.

Dicano quello che vogliono, ma questa resta la verità:

il compimento dell’orrore del caso Moro non è stato il 16 marzo ma il giorno dei funerali della scorta,

perché quel giorno sono rimasta davvero orfana e senza famiglia.

Se lo Stato o chi per esso voleva avere carta bianca nella mia famiglia, doveva togliere me di mezzo.

Perché io sono battagliera, coraggiosa, determinante, incurante dei giudizi altrui e del pericolo.

E soprattutto fedele, come il mio nome, quindi avrei fatto tutto il possibile per impedire che papà venisse ucciso.

Sarei andata tutti i giorni in televisione, mi sarei incatenata al cavallo di viale Mazzini per avere udienza in Rai e dire la nostra opinione pubblica.

Avrei fatto entrare in casa un giornalista perché assistesse dalla prima linea agli sviluppi della vicenda Moro, e poi lo raccontasse.

Avrei organizzato dei sit-in di giovani davanti al Parlamento e alla sede del governo.

Avrei promosso fiaccolate, corte manifestazioni….Qualsiasi cosa. Ma non il silenzio.

Perfino mio padre, che non amava la televisione, in una lettera a mia madre…

 le aveva chiesto espressamente di non dare retta a nessuno e di andare in tv per fare un appello.

Dalla <<prigione del popolo>>, aveva capito – e io con lui – che l’unica speranza di salvezza era coinvolgere l’opinione pubblica.

Dopo i funerali della scorta, me ne tornai a casa. E dal quel momento rimasi in disparte, per aderire a un espresso e pressante desiderio di mia madre di non aprire fronti esterni alla famiglia..

Oggi, a distanza di tanti anni sono sempre più convinta che la gestione << silenziosa >> dei cinquantacinque giorni fosse sbagliatissima.

In quel periodo, oltre alla tragedia di mio padre nella mani dei sequestratori, dovevo fare i conti anche con altre emergenze. L’ernia del disco.

La difficoltà oggettiva di tenere un bambino piccolo abituato a uscire imprigionato in casa,

 con le serrande abbassate, tipo coprifuoco, per paura che ci sparassero.

E soprattutto un senso di impotenza portata allo spasimo.

Stare a guardare le cose sbagliate fatte dagli altri e non poterne fare neppure una giusta,

può darti, infatti, una devastante sensazione di impotenza.

Comunque, ogni volta che ci penso, pur rimanendo della mia opinione, mi sforzo di capire anche le ragioni di mia madre.

E giungo alla conclusione che probabilmente lei avesse scelto il male minore, che non potesse fare altrimenti.

Arrivo persino a convincermi che, al suo posto, nei suoi panni di madre, forse anch’io avrei agito così. 

In ogni caso, la morte di papà non ha purtroppo segnato la fine di un incubo, ma l’inizio dell’incubo per eccellenza.

 Tutte le certezze erano andate perdute, la mia famiglia non c’era più.

E io a trentun anni, quanti ne avevo il 9 maggio 1978, mi sono ritrovata da sola su un campo di battaglia,

sotto un bombardamento, vittima e protagonista,, mio malgrado, di una guerra che non avevo voluto, né provocato.

Quella della mia famiglia, e delle persone che le giravano intorno, contro la Dc, accusata di non aver fatto nulla per salvare mio padre.. L’accusa, per certi aspetti, era anche giustificata e ragionevole.

Ma credo che mio padre non avrebbe voluto che la guerra venisse combattuta dalla sua famiglia,

e oltretutto in modo frontale.

Perciò, pur non assolvendola, ho cercato di mediare perché i Moro non rompessero totalmente con la Dc.

Ma alcuni miei familiari non erano d’accordo.

Quando Ciriaco De Mita, allora segretario del partito, mi chiese di candidarmi, rifiutai perché mia madre mi disse che << sarei stata il chiodo della sua bara>>.

Qualche tempo dopo, nel 1986, fu la base democristiana a propormi la candidatura al Senato in un collegio difficile in Puglia, e io accettai.

Anche perché alcuni avvocati mi avevano vivamente consigliato di farlo per motivi di sicurezza:

una carica istituzionale vale come deterrente.

La mia scelta non piacque alla famiglia e fu vissuta come uno sgarbo anche dai vertici democristiani.

L’unico a inviarmi un biglietto di felicitazioni per la mia elezione, fu Giulio Andreotti.

La guerra alla Dc, anche se aveva un suo fondamento, durante il sequestro non era servita a papà;

e dopo, quando c’erano ben altre tragedie da combattere, ha isolato noi. 

Dalla morte di mio padre in poi, io ho vissuto in una trincea virtuale.

Perché non volevo lasciarlo solo.

Era iniziata immediatamente una campagna di stampa per denigrare,anche dopo morto, la figura di Aldo Moro.

Io non volevo permettere che venisse abbandonato e la sua memoria negata,

che lui continuasse a essere ucciso di giorno in giorno.

Ma così facendo, ho preso tutte le bombe, tutto il livore, tutto lo schifo che era la risposta..

 di quanti si sentivano attaccati dal disprezzo della mia famiglia e dalla verità.

Durante il sequestro, tutti avevano fatto di tutto, io avrei voluto fare solo poche cose utili e non potei farle,

e dopo mi ritrovai da sola a subire le conseguenze di azioni non mie e che non condividevo.

La conseguenza più immediata?

Sono stati ventisei tumori….mi mancano sei organi..

Già, è così. E’ stupefacente che io sia ancora viva.

L’altra è che mi hanno messa nella condizione di non vita.

Io sono esule nel mio paese, per non dire apolide.

Hanno creato di me un immagine che non corrisponde assolutamente al vero:

quella di una persona volubile, vulnerabile e anche un po’ tocca,

nella migliore delle ipotesi non razionale, nella peggiore inaffidabile.

Ed è paradossale, perché proprio la mia affidabilità mi ha permesso di restare a fronteggiare da sola,

per quasi trent’anni, il tentativo del potere di uccidere perfino l’idea che sia esistito un Aldo Moro.

Da sola e con un fardello di inesprimibile sofferenza.

La subdola versione ufficiale della mia presunta non sanità mentale.

La mancanza di lavoro – si, perché ho perso anche il lavoro – e quindi la mancanza di denaro.

E poi, il dolore insopportabile dell’ingiustizia conclamata e quotidiana nei confronti di papà e della verità.

E ancora, la perdita migliore delle famiglie possibili. Ma su tutto, l’insopportabile dolore, per me , di mio figlio Luca.

Un giornalista, una volta, ha scritto parole straordinariamente giuste:

mio padre, di fronte alla morte, ha messo per la prima ed unica volta davanti allo Stato la famiglia;

e davanti alla famiglia, Luca.

Il dolore di Luca è inenarrabile. Ed è atroce per me non poterlo sanare in alcun modo.

La stessa impotenza vissuta nei giorni del sequestro.

Questa è stata la mia esistenza dopo la morte di mio padre. 

E come se non bastasse, non voglio dimenticare – anche se non gli do nessun peso e nessuna valenza –

le intimidazioni e le minacce che costellano in varia misura la vita di alcuni, più che di altri membri della famiglia Moro.

Minacce e intimidazioni iniziate da quando io ho memoria e proseguite anche dopo il 9 maggio del ’78, e a tutt’oggi,

come se Aldo Moro dovesse essere ucciso una seconda volta. Sono convinta che se papà per miracolo dovesse tornare vivo, sarebbe ucciso ancora e ancora.

Il suo progetto politico dava talmente tanto fastidio

da risultare pericoloso perfino in assenza di colui che lo aveva pensato.

Secondo me, i sentimenti di colpa inconfessabili e la relativa rimozione di responsabilità da parte del potere

si riverberano sulla nostra vita, la mia in particolare,

chiudendo ancora una volta porte e finestre e impedendoci di vivere allo stesso livello di un clandestino.

A mio avviso la verità non può essere e non è solo quella ..conclamata dalle trombe prezzolate del solito potere.

I delitti politici avvenuti nel nostro Paese dal dopoguerra in poi

andrebbero riesaminati come vere e proprie esecuzioni di persone da far tacere per sempre.

Io avrei fatto di tutto per salvare papà.

Ma oggi sono sempre più convinta che anche l’impossibile non sarebbe bastato.

Ripensando a quei 55 giorni, ripercorrendo ogni fotogramma di quella vicenda,

mi rendo sempre più conto di quanto fossero potenti quelli che volevano Moro morto.

La mia opinione è che dietro il sequestro.. ci fosse un potere, una volontà..

 troppo più forte di ogni tentativo che si potesse mettere in atto per salvarlo.

L’Onu, la Caritas, la Croce rossa internazionale,lo stesso papa Paolo VI,

 chiunque tentasse di salvare la vita a Moro veniva bloccato a un certo punto.

Era come se, a un certo livello, a un livello talmente alto da risultare più potente di qualunque altro,

esistessero delle <<entità>> a cui dava fastidio Moro vivo.

<< Entità>>forse non riconducibili a una sola persona, ma a poteri e lobby.

E credo che mio padre , dalla prigione in cui era detenuto, lo avesse ben compreso.

Le lettere che mandava all’esterno erano più che vere,

e non estorte con la minaccia delle armi o scritte sotto l’effetto di qualche droga,

come qualcuno a suo tempo insinuò.

Nei suoi messaggi, papà ..non solo parlava in coscienza, sapendo quello che diceva,

 ma parlava su più livelli.

Almeno quattro: la famiglia, il potere politico, i brigatisti e un misterioso quarto livello

che si intuisce dalle indagini, ma sul quale, forse per la ragion di Stato, non si è arrivati a ricerche più approfondite.

Appena sequestrato, papà deve aver capito immediatamente chi erano i suoi veri interlocutori e con loro ha cercato di parlare. 

E’ doloroso pensare che Aldo Moro non abbia avuto dei veri amici.

Di questo titolo, infatti, si potrebbero fregiare meno di cinque persone.

Altrimenti non sarebbe stato abbandonato e tradito da tutti.

Persino da molti suoi ex allievi, ai quali papà aveva dedicato tantissimo tempo togliendolo a noi:

lo hanno tradito anche dopo non difendendone la memoria. Mi dà inaudito dolore.

Come mi perseguita l’eterno confronto tra il prima e il dopo.

Ogni cosa mi ricorda papà e mi da dolore.

Una sofferenza a cui si aggiunge infine quella esponenziale e profondamente gratuita che scaturisce da un’ingiustizia:

perché non solo ..noi non abbiamo voce,

ma altri, personaggi che non sanno nulla sulla vicenda Moro

o denigratori della figura di mio padre o ex brigatisti,

invece si, parlano come oracoli in televisione e sui giornali.

E forniscono delle versioni che, guarda caso, arrivano tutte sulla stessa conclusione:

non c’è più niente da sapere, dietro il sequestro Moro non c’era nessuna entità.

E’ un’ingiustizia troppo grande, per essere sopportata.

Il 9 maggio del 2006 ho scritto al Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano

e ai presidenti delle due Camere, Fausto Bertinotti e Franco Marini.

Chiedevo, anche a nome degli altri firmatari della lettera, che i familiari delle vittime

venissero almeno equiparati agli assassini..

nella possibilità di dar voce ai propri sentimenti e nel ricordo dei propri cari.

Risultato? Napoletano ha immediatamente risposto e mi ha assicurato di aver trasmesso la mia richiesta alla Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai.

Bertinotti mi ha ricevuto con cortesia e celerità.

Marini invece, non ha risposto. Almeno fino a questo momento. Sarà perché è un ex democristiano?

In effetti, quell’area sembra non aver ancora metabolizzato la vicenda Moro.

D’altro canto, finchè il Paese non si sarà fatto carico di questo fardello,

non potrà riprendere il suo cammino.

Tutti rimarranno inchiodati sul posto.. fino a quando ognuno non si sarà assunto sulle proprie spalle ..

il peso della sua parte di responsabilità.

Ma non sarà così per sempre.

Anche se il potere continua a creare terra bruciata interno a noi ..

e a fabbricare versioni di comodo, non c’è niente da fare:

prima o poi, tutti,… anche i mandanti,

si dovranno confrontare con la verità.

Questa è una legge cosmica. 

Pubblicato 29 ottobre 2008 da sorriso47 in Popoli e politiche

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