LA CITTA’ VECCHIA (FABRIZIO DE ANDRE’..UN PROFETA DI DIO..   Leave a comment


fabriziodeandre_1_1343928697(LA CITTA’ VECCHIA ..TESTO)

Fabrizio de André

Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi
ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi,
una bimba canta la canzone antica della donnaccia
quello che ancor non sai tu lo imparerai solo qui tra le mie braccia.

E se alla sua età le difetterà la competenza
presto affinerà le capacità con l’esperienza
dove sono andati i tempi di una volta per Giunone
quando ci voleva per fare il mestiere anche un po’ di vocazione.

Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino
quattro pensionati mezzo avvelenati al tavolino
li troverai là, col tempo che fa, estate e inverno
a stratracannare a stramaledire le donne, il tempo ed il governo.

Loro cercan là, la felicità dentro a un bicchiere
per dimenticare d’esser stati presi per il sedere
ci sarà allegria anche in agonia col vino forte
porteran sul viso l’ombra di un sorriso tra le braccia della morte.

Vecchio professore cosa vai cercando in quel portone
forse quella che sola ti può dare una lezione
quella che di giorno chiami con disprezzo pubblica moglie.
Quella che di notte stabilisce il prezzo alle tue voglie.

Tu la cercherai, tu la invocherai più di una notte
ti alzerai disfatto rimandando tutto al ventisette
quando incasserai delapiderai mezza pensione
diecimila lire per sentirti dire “micio bello e bamboccione”.

Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli
In quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori
lì ci troverai i ladri gli assassini e il tipo strano
quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano.

Se tu penserai, se giudicherai
da buon borghese
li condannerai a cinquemila anni più le spese
ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo.

Fabrizio De André è uno dei capisaldi della canzone d’autore italiana. Profondamente influenzato dalla scuola d’oltre Oceano di Bob Dylan e Leonard Cohen, ma ancor piu’ da quella francese degli “chansonnier” (Georges Brassens su tutti), e’ stato tra i primi a infrangere i dogmi della “canzonetta” italiana, con le sue ballate cupe, affollate di anime perse, emarginati e derelitti d’ogni angolo del mondo. Il suo canzoniere universale attinge alle fonti piu’ disparate: dalle ballate medievali alla tradizione provenzale, dall'”Antologia di Spoon River” ai canti dei pastori sardi, da Cecco Angiolieri ai Vangeli apocrifi, dai “Fiori del male” di Baudelaire al Fellini dei “Vitelloni”. Temi che negli anni si sono accompagnati a un’evoluzione musicale intelligente, mai incline alle facili mode e ai compromessi.
De Andre’ usava il linguaggio di un poeta non allineato, ricorrendo alla forza dissacrante dell’ironia per frantumare ogni convenzione. Nel suo mirino, sono finiti i “benpensanti”, i farisei, i boia, i giudici forcaioli, i re cialtroni di ogni tempo. Il suo, in definitiva, e’ un disperato messaggio di liberta’ e di riscatto contro “le leggi del branco” e l’arroganza del potere. Di lui, Mario Luzi, uno dei maggiori poeti italiani del Novecento, ha detto: “De Andre’ e’ veramente lo chansonnier per eccellenza, un artista che si realizza proprio nell’intertestualita’ tra testo letterario e testo musicale. Ha una storia e morde davvero”.

Le musiche delle sue prime canzoni, radicate da Nicola Piovani dentro la tradizione popolare italiana, sono state negli anni contaminate da altre culture. Il suo linguaggio si e’ gradualmente evoluto verso il sincretismo. E proprio la valorizzazione dei dialetti gli e’ valsa il Premio Govi. “In una nazione giovane come l’Italia i dialetti sono indispensabili – ripeteva spesso -. Rappresentano un desiderio di identificazione nelle proprie radici che si fa tanto piu’ forte quanto piu’ si diffonde l’idea di una mega-statalizzazione europea. E poi l’italiano, se non fosse nutrito delle frasi idiomatiche, diverrebbe un linguaggio adatto solo a vendere patate o a litigare nei tribunali”.

Fabrizio De Andre’ nasce a Genova il 18 febbraio 1940. Leggenda narra che sul giradischi di casa suo padre avesse messo il “Valzer campestre” di Gino Marinuzzi, dal quale, oltre venticinque anni dopo, il figlio trarra’ la canzone “Valzer per un amore”. Con il padre braccato dai fascisti, il resto della famiglia, scoppiata la Guerra, si rifugia nell’astigiano, per poi tornare nel ’45 a Genova, dove De Andre’ porta avanti gli studi fermandosi all’universita’ (facolta’ di Legge) a sei esami alla fine. Questo perche’, nel frattempo, era nata la sua vocazione musicale, tramite gli studi di chitarra e violino, e l’esibizione in concerti jazz, fino alla composizione di propri brani originali. Una vocazione che, grazie al successo dell’interpretazione nel ’68 da parte di Mina della sua “Canzone di Marinella”, gli permette di continuare il mestiere di musicista. Il brano, uno dei suoi capolavori, e’ una tenera fiaba sospesa nei fumi del tempo e ispirata dalla storia vera della morte di una prostituta. Non sara’ la prima volta che un episodio di cronaca verra’ sublimato da De Andre’ in musica. Proprio la realta’ quotidiana, infatti, da’ linfa alle sue prime composizioni, che tradiscono la passione per la letteratura francese: Proust, Maupassant, Villon, Flaubert, Balzac, su tutti.

Sono gli anni in cui la Scuola di Genova sforna canzoni d’autore con Paoli, Bindi, Lauzi e soprattutto Luigi Tenco. L’amicizia di De Andre’ con quest’ultimo nasce in una balera di Genova. Tenco gli si avvicina dicendo: “Sei tu che vai in giro a dire che ‘Quando’ l’hai scritta tu?”. “Si’, l’avevo detto in giro per prender della figa”, la replica di De Andre’. Tenco si mette a ridere. La notte del suicidio di Tenco a Sanremo, De Andre’ rimarra’ insonne davanti un foglio di carta, scrivendo la struggente “Preghiera in Gennaio” per l’amico scomparso (un tema, quello del suicidio “eroico”, gia’ caro al Cohen di “Who By Fire” e che ricorrera’ spesso nel canzoniere di De Andre’).

Il primo vero 45 giri attribuito al cantautore genovese e’ pero’ “Nuvole Barocche” (1958), un brano d’impostazione tradizionale sulla falsariga della canzone melodica d’autore di Domenico Modugno. Gia’ dai singoli successivi, tuttavia, emerge il vero De Andre’. “La guerra di Piero” e’ la sua canzone anti-militarista per eccellenza, quasi la risposta italiana agli inni pacifisti di Bob Dylan e Joan Baez. “La citta’ vecchia” e’ una summa a ritmo di mazurca di tutti i quartieri malfamati dell’umanita’. “Delitto di paese” e’ una ballata noir in cui miseria e morale bigotta sono immersi in un clima baudelairiano da “Fiori del male”. La “Ballata dell’Amore cieco”, parabola crudele della vanita’ femminile, sembra uscita da una delle leggende dei Nibelunghi. La “Canzone dell’amore perduto” e’ interpretata con tono fatalista su una musica del compositore tedesco Georg Philipp Telemann: il tema del concerto per tromba e orchestra in Re maggiore. La ballata medievale di “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” (scritta con Paolo Villaggio) e’ degna dei monologhi “storici” piu’ oltraggiosi del teatro di Dario Fo. E poi ancora “Via del campo” e “Bocca di rosa”, filastrocche incantate in cui la prostituzione viene ancora una volta redenta in chiave mitica. A colpire è anche l’interpretazione di De André, che – come Cohen – indulge sulle tonalità più basse, grazie alla sua voce profonda e baritonale, aggiungendo un tocco di drammaticità.
Con questi brani, De Andre’ demolisce, ad uno ad uno, tutti i clichè della canzone tradizionale coronando, in Italia, un’operazione paragonabile a quella compiuta da Dylan negli Stati Uniti. “Se non avessi mai conosciuto le canzoni di Fabrizio, non avrei mai cominciato a scrivere le mie”, ha detto, per esempio, Francesco De Gregori. E anche Franco Battiato si e’ detto debitore delle ballate di De Andre’, tanto che nel suo album “Fleurs” ha voluto incidere due cover (“La canzone dell’amore perduto” e “Amore che vieni, amore che vai”) tratte dal primo repertorio dell’artista ligure. Quelle di De Andre’ sono storie ironiche e senza tempo, con personaggi che sembrano quasi schizzare fuori dai versi, con la loro carica di umanita’, inquietudine, disperazione. La canzone italiana scopre finalmente temi sociali e politici. Inevitabile pertanto che De Andre’ – suo malgrado – diventi uno dei riferimenti della contestazione giovanile, nonche’ l’incubo dei burocrati televisivi, che non sanno fin dove la censura puo’ colpire storie cosi’ sottili e metaforiche, eppero’ altrettanto esplicite nella loro denuncia sociale.

La fine del decennio Sessanta e’ uno dei momenti topici della carriera dell’artista ligure. Escono infatti Fabrizio De Andre’ – Volume I, che raccoglie alcuni dei suoi piu’ fortunati singoli, seguito l’anno dopo dal sontuoso concept-album Tutti Morimmo A Stento. E’ un viaggio in un girone dantesco della desolazione umana, tra drogati, impiccati, ragazze traviate e bambini impazziti, sulle note di un’orchestra sinfonica diretta dai fratelli Reverberi. Disco fin troppo ridondante e barocco, influenzato dai primi vagiti del progressive italiano, “Tutti morimmo a stento” rappresenta tuttavia uno dei momenti piu’ alti della carriera di De Andre’. I brani si susseguono senza pause, scanditi dagli “Intermezzi”, in un crescendo che trova il punto piu’ alto nel “Recitativo” e si scioglie nel coro finale. Attraverso la “Leggenda di Natale”, favola delicata ispirata da un testo di Brassens in cui la semplicita’ dei giri d’accordi e delle rime baciate riesce a creare un’atmosfera magica e rarefatta, si perviene alla “Ballata degli impiccati”, centro ideale di questa architettura. I versi di De Andre’ – sempre scarni, ruvidi, sarcastici – non cedono mai alla retorica del sentimentalismo: “Dai diamanti non nasce niente/ dal letame nascono i fiori” (“Via del campo”) e’ il suo credo. Cosi’ anche i condannati a morte della “Ballata degli impiccati” (ispirata dalla “Ballade des Pendus” di Villon) si trasfigurano in creature mitiche, animate da un disperato, smisurato rancore (“Chi derise la nostra sconfitta/ e l’estrema vergogna ed il modo/ soffocato da identica stretta/ impari a conoscere il nodo. Chi la terra ci sparse sull’ossa/ e riprese tranquillo il cammino/ giunga anch’egli stravolto alla fossa/ con la nebbia del primo mattino/ La donna che celo’ in un sorriso/ il disagio di darci memoria/ ritrovi ogni notte sul viso/ un insulto del tempo e una scoria”). A dare una nota scenografica al disco e’ “Inverno”, che rinnova la tradizione delle “poesie stagionali” in voga nell’Inghilterra del Settecento: l’inverno e’ l’immagine della natura che si annulla nel bianco della neve e nel nero degli alberi scarni, segnando la fine ciclica di tutte le cose.

Seguira’ un periodo particolarmente prolifico, in cui De Andre’ produrra’ quasi un album all’anno. Prevale, nelle sue canzoni, la preferenza per toni musicali attutiti, smorzati, “in minore”, che accompagnano una versificazione che riecheggia la ballata di tradizione e di lontana provenienza medievale. Ma negli anni i riferimenti del suo repertorio aumentano. I Vangeli apocrifi sono alla base della Buona Novella, il disco che De Andre’ considerava “il piu’ riuscito”, in cui l’annuncio del Salvatore si trasforma in atto di fede laico. L'”Antologia di Spoon River” e’ lo spunto per Non al denaro, non all’amore ne’ al cielo, in cui brilla quella metafora sarcastica di tutte le invidie e le bassezze umane che e’ “Un giudice”.

In Italia, sono gli anni caldi della contestazione. De Andre’ si professa anarchico e sembra quasi cedere alla tentazione eversiva in Storia di un Impiegato, uno dei suoi album piu’ controversi. Il disco narra la vicenda di un travet che, sull’onda del Maggio francese, e’ contagiato dal fuoco rivoluzionario. E’ una cupa profezia sulla degenerazione della contestazione in terrorismo che, di li’ a poco, infettera’ la storia italiana. Mai cosi’ crudo e realistico, De Andre’ ricorre a un linguaggio moderno che – come scrive Roberto Dane’ nell’introduzione – “si stacca dalla forma di racconto per approdare a immagini di tipo psicologico fino a figure oniriche di stampo reichiano”. Uno stile che pervade il pezzo-manifesto dell’album “La bomba in testa”, brano drammatico e trascinante, che denuncia il conflitto lacerante tra l’ansia di cambiamento e le sirene lugubri della violenza. L’album e’ un susseguirsi di canzoni dal ritmo sincopato, accompagnate da un linguaggio involuto, carico di metafore ricorrenti e ossessive.
Con questo disco De Andre’, forse inconsapevolmente, scende nell’agone politico. L’estrema sinistra gli da’ del qualunquista; la destra lo accusa di propaganda eversiva. Ma lui si ostina a ripetere: “Il mio identikit politico e’ quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l’hanno fatto diventare un termine orrendo… In realta’ vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacita’”.

Canzoni (1974) segna il ritorno a uno stile piu’ pacato e a un linguaggio piu’ letterario, grazie a una manciata di cover di Dylan (“Desolation Row”), Brassens (il recitato di “Morire per delle idee” e la splendida ballata “Le Passanti”) e Cohen (“Suzanne” e “Giovanna d’Arco”): quasi una summa dei suoi riferimenti artistici. Il successivo Volume VIII (1975), nato dall’incontro con Francesco De Gregori, segna un’altra tappa nell’evoluzione della canzone italiana degli anni Settanta, nel segno di una “poesia cantata”, impreziosita da un linguaggio sempre piu’ ricercato. De Gregori porta il suo tipico stile da fiaba metropolitana, De Andre’ accentua, esasperandolo, l’uso di figure retoriche, fantasie e nonsense. Uno stile che tocca il suo vertice nella struggente “Amico fragile”, metafora di chi si oppone per coltivare i suoi sogni solitari, e “Giugno ’73”, epigrafe del matrimonio borghese e delle sue convenzioni. Sono canzoni costruite quasi solo sui versi, in cui la musica non ha quasi altro senso se non quello di suggerire il “tono” da seguire.

La musica di De André si fa più ricca e sostenuta con l’approdo nella Rimini (1978) felliniana dei “Vitelloni”. L’album, composto insieme a Massimo Bubola, segna pero’ una caduta di tono, cedendo a tratti al richiamo del facile ritornello e del ritmo accattivante. La traduzione in italiano (con strane variazioni lessicali in una sorta di immaginario dialetto meridionale) di “Romance in Durango” di Dylan, per il quale il cantautore americano si complimentò di persona con De André è un’intuizione brillante. Ma alcuni brani sembrano costruiti solo sull’eco delle prodezze passate. “Andrea” e “Sally”, comunque, sono due filastrocche magiche, degne del periodo di “Marinella”.
Fa da suggello all’uscita dell’album un tour con la Pfm, testimoniato da un album doppio in cui i classici del cantautore genovese, magistralmente riarrangiati in chiave rock, trovano nuova linfa.

Due donne segnano la vita di Fabrizio De Andre’: Enrica Rignon detta “Puny”, che sposa nel ’62, e Dori Ghezzi, che diviene la sua compagna dal ’75 in poi. E’ con lei che decide di ritirarsi in quella fattoria dell’Agnata in Gallura (Sardegna), che gli ricorda “la Liguria degli anni ’40, in cui c’erano piu’ alberi che case, piu’ animali che uomini”. Ed e’ sempre con Dori Ghezzi che vive l’esperienza drammatica dei quattro mesi di sequestro. Un’esperienza che segna parte dell’album senza titolo che sara’ poi ribattezzato L’Indiano. Neanche di fronte ai suoi rapitori De Andre’ perde il “vizio” di rovesciare la morale comune su colpevoli e giudici. I malviventi sardi, cosi’, diventano “marinai di foresta” o indiani Sioux, criminali e oppressi al contempo. “Sono stato rapito da una banda di Cherokee – raccontava – che, prima ancora di volere i soldi, voleva dimostrare il coraggio di rapire una persona”. Il disco tuttavia e’ uno degli episodi meno convincenti della sua carriera, infarcito di canzoni ripetitive e pedanti, prive di quella magica ispirazione che aveva caratterizzato il decennio ’70. Fa eccezione la struggente “danza indiana” di “Fiume Sand Creek”, che evoca il massacro perpetrato dagli uomini di un certo colonnello Chiwington, il quale venne poi eletto al Senato degli Stati Uniti.

Quando sembra che la sua vena poetica si stia inaridendo, De Andre’ sorprende tutti gettandosi in un progetto tanto ambizioso quanto originale: Crueza de ma, nato dalla collaborazione con Mauro Pagani e scritto integralmente in genovese, “l’idioma neolatino piu’ ricco di fonemi arabi”. E’ l’inno a quella Genova che per De Andre’ rappresentava un piccolo continente a se’, con “il suo sapore di mare, il profumo della sua cucina, ma anche il puzzo del porto e del pesce marcio”, quella Genova che aveva “la faccia di tutti gli esclusi conosciuti nella citta’ vecchia, le ‘graziose’ di via del Campo, i ‘fiori che sbocciano dal letame'”. De Andre’, infatti, pur essendo nato da una famiglia borghese, ha sempre prediletto “i quartieri dove il sole del buon Dio/ non da’ i suoi raggi/ le calate dei vecchi moli/ l’aria spessa carica di sale/ gonfia di odori”, descritti nella “Citta’ vecchia”. “Crueza de ma” e’ un viaggio appassionato nella musica mediterranea, dove gli strumenti della tradizione nordafricana, greca, occitana (dalla gaida macedone alla chitarra andalusa, dallo shannaj turco al liuto arabo) convivono con quelli elettrici in un universo poetico di rara intensita’. Nascono cosi’ brani raffinati come la title track, “Sinan Capudan Pascia’”, “Sidun”. Il disco segna una pietra miliare per l’allora nascente world music italiana ed e’ premiato dalla critica come miglior album dell’anno e del decennio.

Intanto, De Andre’ collabora con l’altro “guru” della scena genovese, Ivano Fossati, in vari brani (tra cui “Questi posti davanti al mare”) e sposa Dori Ghezzi nel 1989. Un anno dopo esce Le nuvole, album tutto sommato interlocutorio, se si eccettua la graffiante metafora della “Domenica delle Salme” e la beffarda ballata di “Don Raffae'” in cui il protagonista, boss detenuto nella cella-reggia di Poggioreale, e’ assistito da un secondino-maggiordomo che e’ al servizio della mala non per disonesta’, ma per la latitanza dello Stato, che si e’ inghiottito i suoi “quaranta concorsi, seicento domande e novanta ricorsi”.

Segue un periodo di silenzio di quattro anni, finche’ nel 1996 Fabrizio De Andre’ torna con Anime Salve, frutto della collaborazione con Ivano Fossati. Quello che e’ destinato a rimanere come il suo testamento musicale e’ anche un disco splendido, un viaggio pieno di suggestioni, sapori, incontri. Da Bahia a Genova, passando per la Sardegna. E’ un percorso affollato di spiriti solitari, che abitano angoli appartati della Terra. “L’isolamento – diceva De Andre’ – ti consente di non stare nel mucchio. E’ la sola condizione idonea a non essere contaminati da passioni di parte, uno stato di tranquillita’ dell’animo che permette di abbandonarsi all’assoluto”. Un obiettivo annunciato fin dal titolo dell’album, che mantiene l’etimo tanto di “animo” quanto di “salvo”, ovvero “spirito solitario”.
Interamente acustico, l’album mescola sapori etnici, jazz, folk. La title track – in cui Fossati accompagna De André anche al canto, imprimendo la sua tipica andatura “rallentata” – è una ballata dolente. “Mi sono visto di spalle che partivo”, recita un verso: e’ un rifiuto dell’identita’ anagrafica, dell’uomo costruito dalla “legge del branco”, che impone a ciascuno dove e come stare al mondo. Un rifiuto simile a quello di “Princesa” (dall’omonimo racconto-intervista di Maurizio Iannelli), il trans brasiliano che tenta di “correggere la fortuna” per finire “tra ingorghi di desideri” maschili. Una straordinaria invenzione letteraria e musicale costruita su ritmi bahiani (una fusione di jazz, pop e bossanova ) e colori tropicali.
Altra solitudine volontaria e libera e’ quella dei Rom, descritti tramite la tribu’ serbo-montenegrina dei “Khorakhane'”, raminga per il mondo “tra le fiamme dei fiori a ridere e a bere”. E’ un’altra ballata acustica, che sfocia in un finale epico, cantato in lingua rom da Dori Ghezzi. Non scampano a un destino di solitudine neanche la tenerissima “Dolcenera” e il pescatore di “Le acciughe fanno il pallone”, che insegue l’impossibile “sogno” di “pescare il pesce d’oro”. E quando “la corsa del tempo spariglia destini e fortune”, nasce l’invidia e la faida di “Disamistade”, che non ha pieta’ di nessuno, innocenti e assassini.
Il disco si chiude con la solenne invocazione di “Smisurata Preghiera” (ispirata dal “Gabbiere” di Alvaro Mutis), che e’ quasi il testamento spirituale dell’intera opera di De Andre’. E’ la testimonianza di chi ha vissuto sempre uno splendido isolamento, presupposto necessario per “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanita’”. Sono episodi di grande intensita’ emotiva, racchiusi in arrangiamenti raffinati, in bilico tra suoni morbidi e una ritmica prepotente. La chitarra di De Andre’ e’ circondata da un mare di strumenti antichi e nuovi, dalle disparate origini geografiche, nel segno di un sincretismo culturale che si riflette anche nella scelta delle lingue, con brani cantati in italiano, romanes, brasiliano, genovese. E la sua voce profonda, seppur offuscata dal fumo e dagli anni, riesce sempre a incantare. Nel tour successivo, l’abbraccio con i figli, Cristiano e Luvi. Con quest’ultima, si rinnova sul palco il magico duetto di “Geordie”.

“Ho un’estrazione borghese e mi sono adagiato un po’ su questo materasso di piume. Avrei potuto dare molto di piu’ se fossi nato alla Foce, da un pescivendolo”, diceva spesso De Andre’ scherzando sulla sua proverbiale pigrizia. Una pigrizia che faceva disperare i discografici: quasi impossibile strappargli un’intervista (tutt’al piu’, come nel mio caso, qualche risposta scritta, ndr), molto difficile vederlo in tournée. Eppure uno scherzo del destino ha voluto che proprio la sua ultima estate fosse la piu’ densa di appuntamenti. Una sfilza di concerti in tutt’Italia che doveva rilanciarlo, dopo la firma del “contratto-anti-pigrizia”, come aveva ribattezzato l’accordo fino al 2002 con la Ricordi. “Adesso – aveva annunciato – dovro’ decidermi a fare il disco di cover dedicato ai cantautori brasiliani che ho in mente da tempo. Con i miei ritmi non ce la farei a registrarne uno tutto mio”.
Fabrizio De Andre’ e’ morto l’11 gennaio 1999, all’Istituto dei Tumori di Milano. Lascia alla cultura italiana versi e suoni da ricordare; alle cronache musicali, una folla innumerevole di imitatori.

I suoi estimatori gli dedicheranno i versi che Fabrizio aveva scritto per l’amico Luigi Tenco la notte in cui s’era ammazzato: “Ascolta la sua voce/ che ormai canta nel vento/ Dio di misericordia, vedrai, sarai contento”. E’ la “Preghiera in gennaio” di tutti quelli che hanno amato Fabrizio De Andre’.

La carriera quasi quarantennale di Fabrizio De André è stata degnamente ricordata nel triplo box In direzione ostinata e contraria (2005): cinquantaquattro brani, tutti “demasterizzati”, per riassaporare l’aroma originario, imperfezioni incluse.
http://www.ondarock.it/italia/fabriziodeandre.htm

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