Da Filippo Fiorini·6 nov, 2013
Buenos Aires – «Il Papa di solito chiama la domenica alle 15», diceva Clelia Luro dall’androne della casa coloniale che miracolosamente ancora resisteva all’assedio delle palazzine nel cuore di Buenos Aires, con il suo mobilio di bambù e l’artigianato indigeno in terracotta. L’ex ragazza ribelle che dalla metà degli anni Sessanta sfidò un ordine secolare, come donna divorziata che fa da segretaria personale a un giovane vescovo, ed uno temporale, come profeta del riscatto dei poveri nello Stato e nella Chiesa, se n’é andata probabilmente con ancora indosso quel sorriso da vecchietta che passa i giorni divertendosi nel vedere le reazioni che ancora suscita la sua irriverenza.
«Io e Francesco abbiamo una bella amicizia, genuina», raccontava spesso. Si erano conosciuti nel 2000 quando suo marito Jeronimo Podestà, l’ormai ex vescovo del sobborgo operaio di Avellaneda, bussò alla porta dell’allora monsignor Bergoglio per parlargli dell’importanza di porre fine al celibato dei preti. La coppia era diventata famosa più di trent’anni prima, quando, ricevuto dal Vaticano l’ordine di diffondere il messaggio dell’enciclica Populorum Progresso, finì per svegliare un piccolo movimento e fece perdere le staffe alla Nunziatura Apostolica di Buenos Aires e alla Casa Rosada che, come di tanto in tanto succedeva nel XX secolo, era occupata da un militare: il generale golpista Carlos Ongania.
«Anni dopo, Bergoglio fu l’unico ad aprirci la porta». La relazione inizialmente solo platonica tra Jeronimo e Clelia, unita alla militanza politica, era costata l’espulsione dal clero del vescovo, l’esilio in Perù di entrambi, che in patria erano perseguitati dalle squadracce della Triple A (Alianza Anti-comunista Argentina), nonché la fine di gran parte delle amicizie di un tempo. Un isolamento che durava anche a distanza di decenni e la cui principale consolazione fu la possibilità di sposarsi. «Jeronimo insisteva per andare da Bergoglio», ricorda Clelia. «È un tipo intelligente, mi capirà», diceva. E Bergoglio capì, anche se il tempo rimasto era poco.
Jeronimo infatti morì 15 giorni dopo quell’incontro e quel che restò dopo fu soprattutto l’amicizia con lei. «Gli piace ascoltarmi, io lo critico, anche adesso che è il Papa. Una volta mi ha detto di avere l’impressione che il mio compito fosse quello di aiutarlo a pensare. Credo che grazie alla nostra storia abbia capito molte cose», diceva Clelia solo pochi giorni fa, nell’ultima intervista che ha dato.
Clelia, lei che lo conosce di persona, crede che Papa Francesco intenda fare una rivoluzione come dicono alcuni?
Vuole cambiare molte cose, ma ci vorrà tempo. Gli ho parlato del celibato ecclesiastico e mi ha chiesto di essere paziente. Ha detto che prima ha altre priorità. Cose come lo Ior o le trame della Curia non sono facili da risolvere.
Addirittura permetterà ai preti di sposarsi?
Si, sicuramente. Solo che bisogna aspettare, invece che insistere, dobbiamo appoggiarlo.
Sull’ingresso delle donne nel clero però ha detto che la Chiesa ha già dato una risposta negativa..
Questa secondo me è stata una leggerezza. A capo della Chiesa adesso c’è lui e se vuole può cambiarne le regole. Il divieto per le donne non è un dogma, ma un eredità del medioevo.
E sul divorzio?
Ne abbiamo discusso molte volte. Io che ho divorziato e poi ho conosciuto un compagno vero, gli dicevo che se nel matrimonio non c’è amore, allora non c’è neanche il sacramento. Diventa prostituzione o ancora peggio, uno stupro. Se ti sei sposato giovane e poi ti sei accorto che non era una cosa per te e che non potevi unirti in anima e corpo, perché le due anime non sono gemelle, allora non c’è sacramento e non c’è neanche matrimonio. La Chiesa deve studiare teologicamente che cosa significa il matrimonio: l’unione di due che si amano. Ratzinger non aveva capito niente in proposito, è stata una delle cose più orribili che ha fatto prima di dimettersi: proibire la comunione alle coppie risposate. Adesso, chi è lui per entrare nella coscienza di chi si sposava se magari in quel matrimonio non c’era amore. Non si può giudicare una cosa del genere.
È per queste sue idee che il Papa la chiama “Strega”?
No – ride – è perché gli ho predetto che sarebbe stato eletto. Prima che partisse per il conclave gli ho detto: Tu che sei un tipo così austero, annulla il biglietto di ritorno, così non sprechi i soldi. Lui mi ha risposto: Ma taci, cosa sei? Una strega? E invece avevo ragione e così mi è rimasto il soprannome.

Che tipo era Jeronimo?
Era un uomo speciale. Un tipo molto dolce e al tempo stesso forte.
Vi siete conosciuti nel ’66, vero?
si.
Lei veniva dall’entroterra e vi siete conosciuti qui a Buenos Aires, com’è stato?
Io ho vissuto per 10 anni in un campo di zucchero a Salta. Con il padre delle mie figlie che era un tipo molto diverso da me. Gli piaceva bere, stare con gli amici. Era molto machista. A me piaceva stare con la gente. stare con i contadini indios.
Voi eravate i proprietari della fabbrica di zucchero?
No, i suoi cugini. In ogni caso era così. Ci siamo dovuti trasferire lì perchè gli avevano dato un lavoro e lì ho partorito 6 figlie. Beh, in realtà cinque. Perchè mi sono separata che ne avevo una nella pancia. Sono venuta a Buenos Aires con 5 bimbe per mano e una nella pancia.
Tutte femmine?
Si sono fantastiche le mie figlie. La più grande mi diceva: «mamma se avessi conosciuto prima Jeronimo, lo avresti sposato?» No, sicuramente no. Mi sarei sposata con tuo padre – gli rispondevo sempre io – mi sarei sbagliata di nuovo. Tuo padre mi ha dato voi sei e io non vi cambierei per niente al mondo. Preferisco 10 anni di cattivo matrimonio, ma sei figlie bellissime. Quando mi sono separata, a Salta avevo studiato nella Croce Rossa. Da bambina ero innamorata di Gesù, ma nel mondo reale non c’era nessuno come lui. Poi, l’ho trovato in Jeronimo.
Voleva farsi suora?
Io volevo consacrare la mia vita a Dio, magari aiutando i poveri, ma non mi piaceva per niente la questione dell’obbedienza. Entrando in convento avrei dovuto sottostare agli ordini di una Madre Superiora e a me questo non andava bene.
La gerarchia non fa per lei?
Ero molto ribelle. Figurati che mi hanno buttato fuori dal primo collegio quando avevo 11 anni. Era un collegio di monache spagnole. A me piaceva molto andare a cavallo, andavo con il mio Dinamite fino a i buetes, le case degli indios fatte con i rami durante la stagione del raccolto e poi bruciate alla sua fine. Però esisteva il problema delle donne che portavano i bimbi in spalla con un solo biberon per tutto il giorno, dalle 7 fino a sera, con 40 gradi. I bimbi vivevano con la pancia gonfia e molti morivano. Allora io mi misi d’accordo con il medico per poter fare un po’ di prevenzione. Questo devo riconoscerlo, il padre delle ragazze non me l’ha mai proibito. Non mi ha mai proibito niente, ma non gli avrei dato ascolto. C’era un prete nel paesino di Pichanal, vicino a Oran, quasi in Bolivia, che era alcolizzato. Lo andavo a visitare e quando arrivavo lo trovavo buttato a letto con un odore d’alcol forte. Io gli dicevo Francisco, se fai così la gente smette di volerti bene. Quando mi separai e partii per Buenos Aires, la gente di Salta mi chiese di cercare aiuto per metterlo in riabilitazione e così ho conosciuto Jeronimo, grazie ad un ubriacone. Jeronimo non ci pensò su due volte, prese la macchina è partì per Salta e io andai con lui. Avevo 38 anni, lui 45. Andavamo a cercare Francisco.
Un viaggio molto lungo..
1500 km. Lo abbiamo trovato e l’abbiamo convinto a curarsi. Il problema è che quando si era già disintossicato, dopo poco tempo è morto di cirrosi. Lui mi diceva sempre: se ti avessi conosciuto prima di essere prete, di certo non avrei preso i voti. Sono entrato in seminario solo per accontentare mia madre.
Poveretto..
Si, poveretto.
Tra lei e Jeronimo fu amore a prima vista o qualcosa che si è sviluppato con il tempo?
Con Jeronimo non si può usare la parola amore, né a prima né a seconda vista. Per me lui era un vescovo come sarebbero dovuti essere tutti gli altri. Si occupava della gente, stava in una diocesi operaia, Avellaneda, era molto impegnato con la gente e a me piacque subito. E io sono piaciuta subito a lui, per essere così come sono.
Determinata?
Si. E mi ha chiesto di essere la sua segretaria privata. Io gli dissi di si e iniziai a lavorare come segretaria. Ma Jeronimo non era uno stupido. Era un uomo. A me facevano arrabbiare tutti i pregiudizi. Che io ero una donna, che davamo scandalo andando in giro insieme a cercare un prete. A noi non c’è n’é mai importato niente di quello che diceva la gente, ma solo delle nostre coscienze. Poi ci fu un golpe militare, come succede sempre qui.
Il golpe di Ongania..
Ah, vedo che sei informato. Perché non te la fai da solo l’intervista?
No, no, scusi, me lo dica lei che l’ha vissuto di persona, io l’ho letto sui libri..
Paolo VI era un misogino. Ma dal punto di vista sociale era un po’ più progredito. Fece un’enciclica che si chiamava la Populorum Progresso, che significa lo sviluppo dei popoli, che è un’enciclica rivoluzionaria. Quando il nunzio diede l’enciclica a Jeronimo gli disse: prendila, su questa potrai lavorarci tu.
Voleva che la diffondesse tra la gente??
Si, perché facesse delle conferenze. Jeronimo sentì tanto entusiasmo con l’enciclica, perché lui era un rivoluzionario, che mi disse: Clelia, con questo viaggiamo da tutte le parti. In questo modo, si è andato trasformando in un leader politico, aveva carisma. Ma siccome era l’epoca post-Peron, noi eravamo peronisti, stavamo con Evita e Peron.
Sia lei che Jeronimo eravate peronisti?
Si.
Anche Papa Francesco è peronista?
Si, certo. Jeronimo iniziò a predicare in molti luoghi e io lo seguivo con un registratore Grundig, per avere tutte le sue conferenze. Dopo sbobbinavo e abbiamo pubblicato un libro che si chiamava La violenza dell’amore. Ma cosa succedeva, i peronisti, quando Jeronimo parlava, visto che era un tipo eloquente, venivano tutti dietro di noi cantando la marcha peronista, lanciando volantini e approfittando della posizione di Jeronimo, che credevano gli desse una certa protezione. Ai tempi di Ongania non si poteva fare propaganda peronista e il dittatore iniziò a irritarsi per la situazione.
Ongania aveva proibito anche solo di pronunciare il nome di Peron. .
Si. Quindi, il fatto che apparisse Jeronimo, che era un leader naturale e che i giovani lo seguissero facendo chiasso.. allora dissero che bisognava toglierlo dalla diocesi, bisognava farlo fuori. E allora quale fu la scusa per farlo fuori? Non potevano accusarlo di predicare la Populorum Progresso che veniva da Roma. Allora dissero che andava sempre in auto con la sua segretaria, che io ero bella, adesso non tanto, ma all’epoca ero molto bella.
Si vede che è stata una bella donna.
Si, noi diciamo che chi è bello da giovane è bello anche da vecchio.
Quindi per toglierlo di mezzo usarono la scusa della vostra relazione?
Si, dissero che stavamo dando scandalo, perché secondo il diritto canonico, le segretarie dei vescovi possono avere più di 60 anni e io ne avevo 38. Io ero una donna libera, mi ero separata, avevo divorziato, avevo lottato per tenere le mie figlie. Ero giovane, ma tenevo la vita per le redini. Jeronimo era un vescovo molto impegnato, ma anche molto obbediente. Ancora non gli era toccato di affrontare a nessuno e quindi era docile, questa è la parola. Quando sono comparsa io, il nunzio ha iniziato a rendersi conto che Jeronimo incominciava a riappropiarsi di un po’ della sua libertà e non gli piacque. Poi, nell’anno ’66, quando ancora eravamo ad Avellaneda, in una riunione del Cedam a Mar del Plata, è comparso Elder Camara. Io volevo fargli un’intervista per la rivista Imagen del Pais, che era la nostra rivista, sono andata a Mar del Plata per conoscerlo. Ma Jeronimo fece un passo indietro e non me lo presentò. Io sono uscita e mi sono messa insieme agli altri giornalisti. Il nunzio ci stava guardando e quindi Jeronimo non aveva il coraggio di presentarmi. Ma mentre io ero in mezzo agli altri giornalisti, Camara, che era un veggente, è venuto da me di sua spontanea volontà e mi ha preso per mano, mi ha iniziato a dire che io avevo il segno di Dio in fronte, sulla bocca e sul cuore e che avevo una missione da compiere nel mondo, in Argentina, in America Latina e in tutto il mondo. A quel punto compare Jeronimo e viene a presentarmelo e gli dico, no, non c’è bisogno che me lo presenti perché ci conosciamo da sempre. Elder allora gli disse a Jeronimo: tu non devi mai temere Clelia, perché Clelia sarà la tua forza. Ci ha preso per mano e ci ha unito, e poi ha detto: Nella Chiesa c’è chi cammina all’indietro e trascina con sé anche le altre persone, sono retrogradi. Ci sono quelli che camminano insieme a tutti gli altri, come me. E c’è chi deve andare avanti ed aprire la strada, questi siete voi. Quell’incontro diede molta forza a Jeronimo. Un conto era avere il Papa laggiù, un altro avere Elder Camara qui con noi.
Alla fine degli anni Sessanta, Camara aveva molta influenza nella Chiesa sudamericana?
Si, chiaro. Era un profeta, fu quello che fece il Vaticano II, il Celam. Medellin, Puebla, tutte queste cose.
Viene considerato un esponente della Teologia della Liberazione?
Si, ma anche qualcosa in più. Va oltre la Teologia della Liberazione, è un profeta. Lui fu amico di tutti i Papi e poteva alzare la voce con ognuno di loro. Quando parlava con noi, io gli dicevo, Elder, tutto quello che lei non dice, io lo scriverò e un giorno pubblicherò un libro. «Si Clelia – diceva – ma aspetta che io sia morto». Così, quando morì io mi sono chiusa in camera e ho tirato fuori questo libro.
È morto nel 1999, no?
Si.
Un anno prima di Jeronimo?
Jeronimo è morto nel 2000. Quando sono andata a congedarmi da lui, gli ho detto: Elder, che cosa farò quando lei morirà? E lui mi disse: “No, io e Jeronimo ce ne andiamo, ma lei deve restare. È importante che resti. E poi colpiva il tavolo con la mano”. E io gli chiedevo, che cos’è questo? Un ordine? È un ordine, mi rispondeva lui. Tu devi restare. E io sono rimasta già 13 anni senza di lui e ho già pubblicato 7 libri.

I libri promessi a Jeronimo e ad Elder (foto: Pangea News
Diciamo che ha eseguito l’ordine..
Il silenziamento operato dalla Chiesa come istituzione contro il profetismo e il modo di essere patriota che aveva Jeronimo fu scandaloso. La cosa triste è che nemmeno i preti terzomondisti lo appoggiarono. Visto che lui era stato sanzionato dall’istituzione, se loro gli si fossero avvicinati, si sarebbero esposti ad essere a loro volta sanzionati. Quindi l’hanno lasciato solo per 34 anni.
Dopo essere stato obbligato a dimettersi come vescovo, non ha avuto più alcun appoggio da parte della Chiesa argentina?
No.
Prima che questo accadesse, quando giravate il paese predicando l’enciclica, avevate l’appoggio di altri membri della Chiesa?
Si, chiaro, praticamente di tutta la Chiesa. Ma è come in un’impresa. Una quantità di farisei, quando l’Episcopato ha iniziato a fare la faccia brutta, avevano paura di essere sanzionati e non lo avvicinarono. Lo avvicinò solo Samuel Ruiz dal Messico, ma di quelli di qua, nessuno. E lui era per esempio amico di Angelelli.
Non è perdurata neanche l’amicizia personale?
Poche, da lontano e per lettera.
Invece Bergoglio, si. Lo andò a visitare una volta?
È stato l’unico membro della Chiesa argentina che si avvicinò a Jeronimo. Era cardinale. Un giorno Jeronimo mi ha detto: «Clelia, voglio andare a parlare con il cardinale». Perché? – gli ho risposto io – se non ti vogliono mai ricevere. No, perché questo è un uomo intelligente che mi saprà ascoltare. Così andò da Bergoglio. Da quella volta Francesco mi ha sempre ripetuto: «Chissà perché non ho conosciuto prima tuo marito». Rimase impressionato da Jeronimo. E quando tornò a casa, mi disse: «È un uomo molto intelligente e spirituale, devi proteggerlo». Sentiva già che se ne stava andando. Questo fu 15 giorni prima della sua morte. Dopo, lo ricoverarono. Quando Bergoglio venne a sapere che era in terapia intensiva, si liberò degli impegni e fu a dargli l’unzione degli infermi. Gli disse: «Sono venuto perchè ti tiri su, non a darti l’estrema unzione». Jeronimo era in coma. Io gli dicevo a Bergoglio: che cosa ti ha detto? «Ah, donna, non mi ha detto niente – rispondeva lui – mi ha stretto la mano, per farmi sapere che stava ascoltando». Poi disse alle monache che mi permettessero di restare con lui fino a che non se ne fosse andato. sono potuta restare 3 giorni in terapia intensiva grazie a lui, sennò le monache mi avrebbero lasciato solo 15 minuti. Noi eravamo uno. Io ero la sua compagna di lotta. Non è la stessa cosa che ti muoia il marito, a che muoia il tuo compagno di lotta. Jeronimo mi diceva sempre: essere compagni di lotta è più che essere compagno per la vita, significa essere compagni per l’eternità.
Crede che Jeronimo e Bergoglio fossero uomini simili o diversi?
Spiritualmente erano molto simili. Jeronimo aveva un carisma più grande. Era un uomo molto forte e molto vigoroso. Anche a livello temperamentale erano molto simili. Soprattutto quando io ho conosciuto Jeronimo. Spiritualmente era un uomo libero. Poi con il tempo Jeronimo è maturato, è diventato più libero di Bergoglio.
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I guasti dell’economia globale nell’ultimo libro di Federico Rampini. Le cure escogitate per contrastare la grande recessione hanno provocato distorsioni e ingiustizie. La sindrome del “Too Big to Fail” è diventata il ricatto di Wall Street nei confronti dell’intera nazione americana
di FEDERICO FUBINI

Quando è arrivato Hibernia Atlantic, era da oltre dieci anni che non si osava prendere un’iniziativa del genere. Da quando la bolla della new economy era scoppiata al giro di boa del millennio, nessuno aveva più posato un cavo a fibre ottiche sul fondo dell’Atlantico.
Poi nel 2011 è stato fatto, qualcuno ha depositato “ventimila leghe sotto i mari” Hibernia Atlantic: ma non era un cavo come gli altri, quelli percorribili da centinaia di milioni di persone che hanno qualcosa da comunicare da una sponda all’altra dell’oceano.
No, quella era un’infrastruttura per pochi: per gli operatori del cosiddetto “high frequency trading”, gli scambi “ad alta frequenza” che puntano a registrare guadagni sul mercato azionario o sui cambi grazie alla rapidità delle operazioni misurata in millisecondi.
Sono operazioni dietro le quali non c’è alcun calcolo razionale sulla qualità di una certa azienda, sui tassi d’interesse o la forza di un’economia o sul modo migliore di allocare il capitale in modo che sia più produttivo, crei più posti di lavoro, porti crescita per tutti.
La sola cosa che conta è la velocità, a costo di perdere il controllo e destabilizzare l’intero listino principale di Wall Street come accadde per il 6 maggio 2010. E Hibernia Atlantic è un cavo che può far guadagnare “ben cinque millisecondi”, scrive Federico Rampini senza riuscire a trattenere il sarcasmo.
Corrispondente di Repubblica a New York, Rampini nel suo ultimo libro (Banchieri. Storie dal nuovo banditismo globale, Mondadori) racconta una gran quantità di storie come questa.
Lo fa per guidarci fra i paradossi dell’Occidente sei anni dopo il giorno in cui qualcosa di spezzò per sempre con il fallimento di Lehman Brothers.
“Se rinasco, in un’altra vita vorrei insegnare l’economia ai bambini – confessa l’autore – Perché crescano armati degli utensili giusti, perché nessuno li possa ingannare con il linguaggio dei tecnocrati”.
E forse Banchieri non è un libro scritto nell’idea di farlo distribuire nelle scuole elementari o medie, ma fin dalle prime pagine si avverte il tentativo di parlare ai non addetti ai lavori.
Il messaggio di fondo del libro, nello stile prima ancora che nei contenuti, è che non devono essere sempre e solo gli esperti a poter parlare con cognizione di causa delle assurdità del sistema finanziario globale. Tutti devono poter capire.
A sei anni dall’esplodere della crisi (“la Grande Contrazione”), Rampini non fa che trovare conferme di quella che per lui è la natura parassitaria delle banche. Ovunque getti lo sguardo, in Italia come negli Stati Uniti.
A New York, nota come i banchieri di Wall Street siano diventati più arroganti e i loro istituti più esposti a rischi scriteriati dopo che la Federal Reserve e il governo americano sono intervenuti per salvarli. La sindrome del Too Big to Fail, “troppo grande per fallire” (o meglio: perché si possa lasciar fallire) è diventato la realtà finanziaria delle mega-banche salvate nel 2008-2009 e implicito ricatto di Wall Street nei confronti di una nazione intera.
Il bilancio di Lehman era di 637 miliardi di dollari quando la banca saltò. Quello di Jp Morgan oggi è di 2.300 miliardi, cresciuto a dismisura proprio perché i manager dell’istituto sanno che il governo americano dovrà comunque aiutarli in caso di difficoltà, pena un’altra detonazione nucleare ancora peggiore.
Neanche l’Italia sfugge alla critica. “Nel corso del 2012 le banche hanno tagliato alle imprese italiane 44 miliardi di euro di finanziamenti”, constata Rampini. Quelle stesse case finanziarie, spesso dai nomi blasonati, hanno assorbito in silenzio la loro parte dei 500 miliardi netti – o mille miliardi lordi – di prestiti straordinari della Bce.
“I banchieri si sono incamerati gli aiuti di Draghi – accusa l’autore – ma non hanno restituito nulla al paese.
Hanno negato agli imprenditori veri le risorse indispensabili per produrre, esportare, assumere”.
Non c’è però solo l’indignazione, nel discorso di Banchieri. C’è anche una buona dose di (amara) riflessione, per esempio sul ruolo sempre più scomodo che hanno dovuto assumere le banche centrali nelle società occidentali. Quando hanno sospeso tutte le cautele e si sono messe a stampare denaro, la Federal Reserve americana o la Bank of Japan hanno sì salvato il mondo avanzato da una spirale depressiva simile a quella degli anni ’30. Ma lo hanno fatto dopo aver mancato di vedere che si sarebbe arrivati a un punto di rottura e producendo nuove distorsioni e vantaggi per i più ricchi in seguito.
La creazione di liquidità tiene a galla l’economia, ma lo fa premiando chi può investire di più nei mercati finanziari. Draghi alla Bce o Ben Bernanke alla Fed hanno assunto un ruolo che Rampini definisce di “onnipotenti”.
Ma proprio l’aver bisogno di eroi del genere dà la misura della nostra fragilità.
“Il culto della personalità – dice l’autore a questo proposito – può raggiungere talvolta delle vette imbarazzanti”.
La terza vena che attraversa il libro, forse la più sentita, è quella personale. Più che un saggio, Banchieri è il diario di una vita vissuta attraverso la crisi. La moglie Stefania che abbandona la professione di trader a San Francisco e passa a contratti a tempo, anno dopo anno, a New York.
Il fastidio all’apprendere che Kathy, l’insegnate di yoga kundalini, dia lezioni speciali per i banchieri di Goldman Sachs. Il frastuono di New York che ti insegue fino al 31 esimo piano, da cui si riesce a fuggire solo nei concerti di Bach in una chiesetta evangelica luterana vicino a Central Park. Anche questo forse è downshifting, scalare alla marcia più bassa, o downsizing, ridimensionare il tenore di vita: espressioni passate di colpo dal gergo dei grandi gruppi industriali a quello delle famiglie. E se qualcuno alla fine chiedesse dov’è la pars construens, la via d’uscita, la risposta è pronta: “Insegnate l’economia ai bambini”.

Il futuro? “Giovani, ve lo dovete prendere: a gomitate. Viaggiate! Ma non solo all’estero. Anche in Italia, per mettere in discussioni ideologie soffocanti. E scoprire le nostre eccellenze, perché è su queste che bisogna costruire”. Non è un dibattito, ma un “processo”, quello che va in scena nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale con il corrispondente di Repubblica da New York Federico Rampini e il direttore della Banca d’Italia Salvatore Rossi al Festival della Scienza. “Un processo per trovare un colpevole, e rispondere alla domanda: chi ha rubato il futuro ai giovani? — incalza Rampini, rivolgendosi ai ragazzi in sala ma anche alle tante “pantere grigie” — L’idea, radicata nel nostro Paese, è che i colpevoli siamo noi. Ovvero, quelle generazioni che hanno accumulato privilegi, che hanno vissuto l’epoca delle vacche grasse contribuendo allo spreco di risorse. Lo abbiamo sentito ripetere dai nostri governanti a iosa. Ma questa è una falsità, una mistificazione ideologica: solo in Italia si rappresenta la crisi in termini di conflitto generazionale. Giovani, faccio un appello: non siate pigri, non lasciatevi sedurre dalle ideologie che trovate sul mercato, rimettete tutto in discussione”.
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Ma dove va ricercata, la colpa della crisi? Il direttore della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, punta il dito contro gli anni Settanta: “In quegli anni — riflette — c’è stata una svolta anche negativa: oggi il denaro pubblico a disposizione è molto poco, e abbiamo un debito molto alto che ha iniziato a formarsi in quegli anni di furore ideologico. E’ in quel periodo che è stato costruito un sistema di welfare inefficiente. E quei disastri, non solo finanziari, ma anche relativi alle regole del gioco, all’istruzione, pesano ancora su di noi”.
Non è d’accordo Rampini, che invece attacca la politica di austerità ispirata dalla Germania: “Siamo prigionieri delle idee di qualche economista defunto — spiega, e parte l’applauso — l’idea che la priorità sia quella di ripianare i conti pubblici risale agli anni Trenta. Angela Merkel si riferisce a pensatori ancora più defunti di Keynes. E allora, ragazzi, non scambiate l’economia per una religione e studiatela: vi serve come cittadini per non essere succubi di queste mistificazioni ideologiche. Il debito pubblico, insegnava Keynes, non è il condensato dei peccati: è uno strumento di politica economica. Se confrontiamo i tassi di disoccupazione giovanile di altri paesi vedrete che gli Usa hanno un debito pubblico, in proporzione al loro Pil, più alto del nostro e un tasso di disoccupazione giovanile che è la metà del nostro”.
Le vere storture, piuttosto, secondo Rampini sono da ricercare altrove: “Non aver colpito fino in fondo l’evasione fiscale, per esempio. E poi, i sussidi di Stato depredati dalla Fiat: un vero esempio di capitalismo parassitario. Ecco: questo è il processo che vorrei sentire più spesso in Italia”.
Il consiglio, per i ragazzi in sala che si alzano in piedi e chiedono come fare, per riprendersi il futuro per le mani, è di «apprendere continuamente — suggerisce Salvatore Rossi — perché se una volta bastava andare a scuola e imparare le nozioni, ora il mondo cavalca un cambiamento continuo».
E poi, aggiunge Rampini, “viaggiare. All’estero, ma anche in Italia. Per scoprire, per esempio, che la città di Pechino da molti anni acquista il modello di formazione professionale dalla provincia autonoma di Trento”. Infine, dinamismo. Perché «il neolaureato americano — aggiunge Rampini — se non riceve una risposta, fa scattare il piano B: il lavoro se lo crea». Il futuro non è stato rubato: bisogna costruirselo.
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