Archivio per giugno 2016

Lo stupro di gruppo non è una ragazzata   Leave a comment


verso la fine della guerra fredda (e pure calda) tra i sessi

Al di là del Buco

Cinque minorenni hanno stuprato una sedicenne. Ragazzi italiani, giacché se fossero stati stranieri avremmo già letto i comunicati di solidarietà di Salvini, l’annuncio di ronde per “salvare le nostre donne”, da parte di camerati dell’estrema destra. Il fatto che siano italiani non fa ben sperare per la ragazza. Ci saranno famiglie che le diranno di essere una rovina per quei figli, amici e amiche degli accusati che le diranno che se l’è cercata, commentatori e commentatrici estranei che metteranno in dubbio ogni sua parola e che processeranno lei prima di processare loro. Lei, le sue abitudini, la sua età, gli interessi. Sarà posta sotto una lente di ingrandimento o, nel caso in cui fosse presa sul serio, trasmissioni tv del pomeriggio parleranno del degrado dei valori, di mostri che si distinguono dagli altri bravi ragazzi, di eccezioni e non di culture diffusissime che colpevolizzano, innanzitutto, le vittime di stupro.

Succederà prestissimo di leggere un editoriale che incolperà le madri di questi ragazzi, colpevoli di non aver insegnato l’empatia, o altri che dimenticheranno che l’educazione arriva da un contesto ampio e che forse le famiglie non c’entrano affatto, sono brava gente che lavora e si sacrifica per dare a questi giovani opportunità di futuro sprecate in un solo momento delirante di violenza. E ancora una volta va spiegato che non c’è molto da capire. Si tratta di cultura sessista, la stessa che porta tante persone a fare slut shaming sulle donne che non restano in riga, obbedienti nei confronti delle convenzioni. E’ una cultura che va eliminata a partire dalla convinzione che non esistono i mostri, le mele marce, ma esistono persone che respirano la stessa cultura e che non percepiscono il fatto di compiere un atto di violenza. Stuprano e pensano di non aver fatto niente. Stuprano e non li ferma un No, perché non gliene frega niente del consenso che la ragazza deve poter dare prima di ogni approccio. Quello che questi ragazzi hanno fatto, se l’accusa viene confermata nelle fasi del processo, è mettere in scena la piena espressione del machismo sessista, egoista, pessimo, orrendo, atroce. E’ la disumanizzazione della vittima che diventa un oggetto, una cosa con la quale giocare, mettendo in atto lo scambio di ruoli tra stupratore e altri membri del branco, per celebrare la omosessualità latente, attraverso la stessa vagina lacerata, contusa, massacrata, che diventa il luogo in cui quei peni si incontrano siglando un patto maschilista.

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Un rito, ai danni di una persona, che potrebbe essere evitato con l’educazione sessuale, con tanta informazione, con la condivisione di sensibilità e la fine del victim blaming messo in atto sempre e ovunque. Prima che questa ragazza vedrà la fine del processo trascorreranno anni, e chi lo sa se lei dovrà cambiare scuola, posto, città, perché sarà ovviamente lei a essere definita zoccola. Invece quegli altri riceveranno pacche sulle spalle perché diranno di essersela fatta in gruppo. La repressione, infine, a mio avviso serve a poco perché non c’è prevenzione e perché ogni tentativo di insegnamento di valori condivisi all’insegna del rispetto per gli altri generi viene scambiato per “indottrinamento gender”. Così il maschilismo si difende e mette in atto una azione reazionaria e conservatrice. Conservando se stesso e piegando tutto il resto alle proprie esigenze.

Lo stupro non è mai colpa della vittima. Tutte le persone di buon senso devono ribadirlo, urlarlo, perché ragazze come questa ulteriore vittima non si sentano sole. Mai più. Finalmente.

Lo stupro di gruppo non è una ragazzata

Lo stupro di gruppo non è una ragazzata

Campania, ancora violenza

di MICHELA MARZANO

Quando una ragazza viene stuprata da un gruppo di coetanei – come accaduto nel Salernitano – in Francia si utilizza il termine tournante che, letteralmente, significa “far girare”. Espressione forse brutale per designare uno stupro, ma anche molto efficace. Visto che ciò che accade quando un branco di maschi violentano a turno una ragazza è proprio questo: la si fa “girare” tra amici come se fosse una sigaretta o una lattina di birra.

La si condivide e ce la si spartisce come se si trattasse di un semplice oggetto; la si utilizza e la si butta via come se fosse solo una cosa che appartiene a tutti e che quindi, di fatto, non appartiene a nessuno. Che problema c’è mai, sembrano pensare questi ragazzi convinti di non far altro che divertirsi tra compagni, nel “servirsi” di una donna-oggetto? Chi lo dice che una ragazza che viene “fatta girare” soffre? “Che c’è di male?”, si chiedeva già il Marchese de Sade accusato di aver violentato una prostituta. “Non è lì per questo?”

La filosofa statunitense Susan Brison, raccontando la violenza sessuale di cui lei stessa era stata vittima da giovane, definisce lo stupro come un “assassinio senza cadavere”. Una violenza devastante che distrugge ogni riferimento logico e da cui è estremamente difficile riprendersi anche dopo molti anni; anche quando le tracce esterne sono ormai quasi del tutto scomparse. Quando si viene violentate, spiega Susan Brison, l’abisso della disintegrazione interna resta talvolta per sempre. Esattamente come restano la paura e la sensazione di impotenza, la difficoltà di incollare i cocci di un’integrità sbriciolata e l’impossibilità di raccontare agli altri quello che si è veramente vissuto. Ci vogliono anni per poter riuscire a integrare questo “pezzo di vita” all’interno di una narrazione coerente. E, per poterlo veramente fare, c’è bisogno che qualcuno ascolti, anche quando i ricordi sembrano incongrui; che qualcuno accompagni, senza domandare nulla. Anche perché l’umiliazione subita viene spesso rinforzata dal sentimento di impunità di quegli aggressori che faticano a rendersi conto della gravità del proprio gesto.

Se l’uomo, “per natura”, penetra, perché la donna dovrebbe soffrire nell’essere penetrata? Se l’uomo, “per natura”, è predatore, perché la donna si dovrebbe rifiutare di essere trattata come una preda? Tanto più che, quando ci si ritrova in gruppo, sembra evidente seguire il movimento collettivo e comportarsi come gli altri: se lo fai tu, allora lo posso fare anch’io; se lo facciamo tutti, non c’è niente di male. E poi non si tratta, in fondo, di una semplice ragazzata? Non è un solo un gioco? Perché non ci si dovrebbe poter divertire almeno quando si è giovani?

E allora, ancora una volta, si spalanca il capitolo della prevenzione e della decostruzione degli stereotipi di genere, dell’educazione all’affettività e della cultura del rispetto. Gli stupri continueranno ad esserci non solo finché non sarà chiaro a tutti che il corpo della donna non è a disposizione di chiunque e che ogni atto sessuale si giustifica e si fonda sempre e solo sul reciproco consenso, ma anche fino a quando ci sarà chi continuerà a banalizzare questi episodi di violenza estrema parlando di “ragazzate” o di “momenti di debolezza”, come purtroppo accade ancora oggi, giustificando così l’ingiustificabile.

Il sesso non è un gioco. Cioè sì, è anche un gioco. Ma solo se a giocare non sono solamente alcuni; solo se tutti sono d’accordo sulle regole; solo se una ragazza può divertirsi esattamente come si diverte un ragazzo. Altrimenti il gioco cessa, e si tratta solo di violenza e di brutalità, di dominio e di prevaricazione. Una violenza e una brutalità che non rispettano la persona che si ha di fronte, riducendola a mero oggetto. Un dominio e una prevaricazione che possono cessare solo a patto che si capisca che nessuno è a disposizione di nessuno e che ogni azione che si compie ha delle conseguenze sulla vita degli altri. Soprattutto quando si parla della violenza sessuale perpetrata su una ragazza che si “fa girare” tra amici come se si trattasse di una

sigaretta o di una lattina di birra pensando che non si stia facendo niente di male. Dimenticando (o non avendo mai imparato) che le frontiere del corpo sono le frontiere dell’io. E che l’io è sempre inviolabile. A meno di non cancellarne per sempre l’irriducibile umanità.

 

Stupratori in libertà. Non è proprio così, ma certo la sentenza della corte di Cassazione secondo cui nei procedimenti per violenza sessuale di gruppo, il giudice non è più obbligato a disporre o a mantenere la custodia in carcere dell’indagato, ha un suono amaro. «Lacerante», commenta la deputata del Pd Donata Lenzi, «sarà un’ulteriore spinta al silenzio per le donne che subiscono violenza».

«Il punto, non è volersi vendicare ma poter avere fiducia che si compia sino in fondo giustizia» è il commento di Barbara Pollastrini, e anche per Giulia Bongiorno si tratta di una decisione non condivisibile: «Il ruolo della donna ne viene avvilito e non è un discorso fuori dal tempo perché è sintomo di discriminazione», ha affermato.  La decisione della Cassazione, è vero, non significa impunità per chi commette il reato di violenza sessuale, le misure di “custodia cautelare” durante le indagini non sono solo il carcere e devono essere valutate dal giudice a seconda del caso. Ma è certo, anche, che solo una vittima di stupro può conoscere l’orrore di un gesto inumano capace di condizionare tutta una vita, il disgusto di vedere la propria vita sviscerata in ogni particolare e gettato in pasto a tutti, prima di sperare di poter avere giustizia.

Perché, se subisci una rapina sei sicuramente la vittima, se sei oggetto di uno stupro, invece, devi dimostrarlo, devi “difenderti” anche se la tua vita è stata sempre corretta, i tuoi comportamenti irreprensibili, devi dimostrare di non aver “meritato o provocato” ciò che ti è accaduto. Ci sono pochi reati in cui la vittima prova l’orrore di essere violata intimamente come in uno stupro, e quello di gruppo è un atto particolarmente odioso, che moltiplica la violenza subita dalla donna, aggravandone il danno fisico, psicologico ed emotivo. Lo stupro di gruppo annulla la vittima e il suo corpo, la rende nudo oggetto di pulsioni e misero trofeo, umiliata dal vanto reciproco del singolo maschilismo, ed è un atto ancora più vigliacco dello stupro individuale, dato che viene usata la forza del gruppo per sopraffare la vittima.

Se per altri reati, essersi organizzati con altri soggetti è un´aggravante che cambia il tipo di reato, perché se si stupra una donna il medesimo fatto diventa irrilevante? Non è la prima volta, purtroppo, che la terza sezione della Corte di Cassazione sottovaluta la violenza sulle donne. Ricordiamo ancora con amarezza l’indimenticabile sentenza del 1999 che dichiarò l´insussistenza dello stupro, perché incompatibile con il fatto che la vittima indossasse i jeans, anche se successivamente, in un altro caso, la stessa Corte corresse il tiro, probabilmente a causa delle proteste seguite a quella ridicola sentenza. Non finiremo di sorprenderci davanti a decisioni che minano sempre più la dignità delle donne, e potenziano in maniera esponenziale la possibilità di offrire attenuanti a comportamenti privi di qualunque senso e lontani da ogni plausibile giustificazione umana.

(Sofia Loren ne La ciociara di Vittorio De Sica, scena da uno stupro di guerra, oscena pubblicità di Dolce e Gabbana)

 

“Decolonizzare il femminismo, depatriarcalizzare l’Islam”: un’intervista con Zahra Ali   Leave a comment


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https://abbattoimuri.wordpress.com/2016/06/14/decolonizzare-il-femminismo-depatriarcalizzare-lislam-unintervista-con-zahra-ali/

Intervista (pubblicata QUI) di Milena Rampoldi.*

Zahra Ali è una sociologa impegnata nel campo delle dinamiche musulmane, femministe ed anti-razziste. Le sue ricerche si sono incentrate sull’emergenza dei femminismi musulmani in Occidente e nel mondo arabo, soprattutto in Iraq. Nel 2012 con la casa editrice La Fabrique ha pubblicato un’opera intitolata Féminismes islamiques, il primo libro su questo tema in lingua francese. In esso, mediante i contributi e le interviste di numerosi autori, si traccia un panorama dei femminismi islamici “in rottura con l’orientalismo e il razzismo che caratterizzano i dibattiti sulle donne e l’Islam oggi” e che rispondono alla “necessità di decolonizzare e de-essenzializzare ogni tipo di lettura del femminismo e dell’islam”. Nella sua introduzione al libro Zahra scrive: “Dunque l’idea non consiste nel rispondere agli interrogativi imposti dal pensiero femminista dominante, ma piuttosto nell’entrare all’interno dell’universo delle femministe musulmane e di vedere in che modo pongono la domanda dell’eguaglianza, secondo delle modalità, dei concetti e delle problematiche che fanno per loro. Allo stesso modo non si tratta di dire come il pensiero islamico e le musulmane affrontano le questioni che si (im)pome la doxa femminista, ma piuttosto di mostrare come si pensano, si articolano e si sviluppano una riflessione e un impegno intorno alla questione dell’eguaglianza dei generi all’interno del quadro religioso musulmano e nei contesti, ove l’Islam funge da quadro di riferimento principale”. (Féminismes islamiques, p. 15). Ringrazio Zahra per aver risposto alle mie domande.

MR: Tu parli di femminismi islamici. Che cosa significa questo termine per te personalmente? 

ZA: I femminismi islamici o musulmani sono rappresentati da delle persone che pensano o agiscono per l’eguaglianza e contro il patriarcato, facendo riferimento al quadro religioso musulmano. Vi sono diverse correnti e diversi contesti. Dunque la militanza femminista musulmana risulta alquanto variegata. Spazia dalle autrici che sfidano le letture maciste della giurisprudenza musulmana (al-fiqh) e si basano su una lettura egalitaria del Corano, come lo fa ad esempio il gruppo Musawah, fino a giungere alle donne che si ispirano alla spiritualità musulmana nella loro lotta per l’eguaglianza tra i generi e più generalmente per la giustizia sociale.

In genere le femministe musulmane come Amina Wadud, Asma Barlas, Zainah Anwar e Ziba Mir-Hosseini insistono tutte sulla distinzione tra al-fiqh, ovvero la giurisprudenza musulmana e al-shari’ah che definiscono come via e non come legge. In questo modo le femministe musulmane pongono l’accento sul carattere umano della produzione giuridica musulmana e sul fatto che al-shari’ah non è una legge da leggere ed applicare, ma un insieme di principi fondamentali di giustizia e di eguaglianza che guidano l’elaborazione di al-fiqh. Il lavoro delle femministe musulmane dunque focalizza soprattutto sull’ermeneutica dei testi sacri, perseguendo l’obiettivo di estrarre le chiavi di lettura patriarcali del Corano e del pensiero musulmano dominante.

L’idea del Tawhid è centrale per le femministe musulmane. Anche io sono molto legata a quest’idea che limita al Divino le caratteristiche del dominio e dell’obbedienza. Si deve obbedienza solo a Dio. E solo Dio può dominare. Dunque ogni forma di dominio e di sottomissione ad un’altra persona significa l’appropriazione di delle caratteristiche e di un potere che non appartengono che al Creatore. Tutte le creature sono uguali davanti all’unico Dio Creatore. Questa idea guida la mia vita e la mia lotta per la giustizia sociale e per l’eguaglianza.

Perché è necessario un femminismo islamico dall’interno che non imita l’occidente?

Per me non esiste un occidente opposto all’oriente, uno spazio interiore che si oppone a quello esterno, ma ci sono forme egemoniche del pensiero e della vita, guidate da un individualismo capitalista e da un modello patriarcale di distribuzione dei ruoli e dei poteri, ed esiste una secolarizzazione della vita pubblica e privata. Il patriarcato si ritrova ovunque, in occidente come in oriente, e anche le lotte per l’emancipazione si trovano ovunque nelle forme più diversificate. L’aspetto particolare dei femminismi che si ispirano all’Islam consiste nel rifiuto dell’imposizione di un modello egemonico della femminilità e della vita e nel fatto di trarre ispirazione dal religioso come fonte di emancipazione. Significa affermare che la religione non è solo oppressiva, ma può anche essere emancipatrice.

Che cosa significa rinnovare e decolonizzare il femminismo nei paesi musulmani?

Credo che si debba decolonizzare i femminismi egemonici che vivono dell’esclusione degli altri e che non si impegnano a favore della lotta per l’eguaglianza dei generi, della lotta contro il razzismo e le ineguaglianze di classe. L’idea consiste nel rimanere più vicine alla vita delle donne, senza cercare di inculcare loro dei modelli di vita di nessun tipo – né “occidentali” né “islamici” – in quanto le loro realtà sono variegate e complesse. La decolonizzazione del femminismo significa la rinuncia all’essenzialismo. Significa dire che ci sono tante modalità di liberazione quanti sono i contesti.

Quali sono gli obiettivi principali del tuo libro?

Il mio libro costituisce un’introduzione generale al pensiero femminista musulmano come si è sviluppato in questi ultimi 20 anni. Esso dà la parola a delle militanti e ricercatrici e a delle attiviste provenienti dalla Francia, dagli USA, dall’Iran alla Malesia, passando per la Siria e l’Egitto. Si tratta di mostrare quali sono le tematiche e le problematiche principali, per le quali si impegna questo movimento da una parte all’interno dell’ambito femminista e dall’altra nell’ambito del pensiero musulmano contemporaneo.

Per me il femminismo significa dinamismo collettivo, impegno socio-politico e diversi culturale e religiosa. Che ne pensi di questo?

Sono d’accordo. Penso che il femminismo si articoli a partire da interessi diversi delle donne e delle loro realtà.

Quando il tuo libro è stato pubblicato nel 2012, costituiva un’anteprima nel mondo francofono. Quattro anni a questa parte come valuti la sua portata e i suoi effetti? Hai aperto forse una fessura nel muro dell’incomprensione, coinvolgendo altri?

Il libro si è venduto bene, e per un’opera specialistica di questo tipo e ad un livello alquanto accademico è raro che ciò avvenga. Questo fatto dimostra che mancavano delle opere sul tema. Credo che il mio libro sia stato uno strumento utile per le femministe musulmane francofone. Ho ricevuto numerosi messaggi di militanti e ricercatrici che mi hanno comunicato che l’opera è stata loro di grande aiuto per sostenere la loro riflessione e il loro impegno per il femminismo e l’antirazzismo. Ho anche ottenuto molti messaggi da studiosi e studenti universitari che avevano utilizzato il libro come base per una ricerca sul tema. Sono dell’idea che quest’opera abbia raggiunto il suo obiettivo di fungere da introduzione al tema, di problematizzare e accedere alle diverse correnti dei femminismi critici. Ho anche l’impressione che il pubblico rimanga quello delle persone attente e sensibili alle questioni femministe, antirazziste e postcoloniali. Per quanto riguarda un pubblico più esteso, non sono sicura che il libro abbia raggiunto coloro che considerano il femminismo e l’islam come due forze antinomiche. Credo che il libro sia stato piuttosto uno strumento utile per coloro che già sono impegnati in una riflessione o in una forma di attivismo femminista o antirazzista.

*Milena Rampoldi
Milena Rampoldi è nata a Bolzano nel 1973 e dopo i suoi studi teologici, pedagogici, filosofici e orientali in Italia ha proseguito con il dottorato di arabistica sul tema della didattica arabofona del Corano a Vienna. Insegnante di lingue e traduttrice, da anni si occupa di storia e religione islamica, di questioni politiche ed umanitarie, di femminismo e diritti umani e di storia medio-orientale ed africana. Tra le varie pubblicazioni, soprattutto in lingua tedesca, figurano i testi italiani sui Corsari del Mediterraneo e sul filosofo René Guénon. E’ promotrice dell’Associazione per il dialogo interculturale e interreligioso Promosaik www.promosaik.com

 

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desideri erotici femminili..   Leave a comment


L'ultimo desiderio

l sito di XConfessions.com è arrivato a 30mila abbonati e 10mila visite giornaliere

«Mi sono seduto vicino a lei e le ho detto un timido ciao. Sono rimasto sorpreso dalla sua gentilezza, mi ha persino chiesto se mi piaceva il suo smalto, e poi i suoi piedi. Mi ha detto di massaggiarglieli e mi sono messo a tremare. Poi, come se mi avesse letto dentro, mi ha domandato se mi sarebbe piaciuto succhiarli, anzi se li trovavo “succhiabili”. Lo erano, e così mi sono messo in bocca ogni suo dito». Joseph K. «So di essere stronza. Ho una bizzarra fissazione per Ikea: fargli comprare mobili e poi farglieli montare mi eccita. So che lui lo odia. Io mi rilasso con un bicchiere senza alzare un dito mentre lui suda. E non è tutto, mi piace anche provocarlo, ma il premio arriva solo a lavoro finito». Lanay. «Non faccio che pensare al bondage, è la sola cosa che mi eccita. Un sacco di gente non lo capisce, soprattutto i fidanzati. Non è il fatto di essere dominata o controllata, vunerabile o scomoda. Essere legata mi sembra come un abbraccio. La sensazione delle corde che mi acchiappano la pelle mi provoca più passione del contatto del corpo. Persino quando mi masturbo mi piace essere legata o immagino di esserlo». Willa6.

Quando la filmmaker Erika Lust, di Barcellona, ha chiesto a tutti i suoi fan di condividere in modo anonimo sul sito XConfessions.com le proprie confessioni erotiche, non immaginava una valanga di risposte. Migliaia di persone, soprattutto trentenni, hanno scritto le fantasie più bizzarre. 500 sono state pubblicate sul suo sito. Da questo crowdsourcing, una quarantina sono già diventate short film. «Un progetto felice», lo definisce lei. «Uomini e donne hanno fantasie molto simili. Il voyeurismo, essere dominati o sottomessi, fare sesso in pubblico, farlo in tre. I testi sono ben scritti, con riferimenti all’arte, alla musica, al cinema: una ragazza, pazza per Mad Men, mi ha chiesto di filmare tutte le scene di sesso che nella serie non si vedono mai. C’è gioia, seduzione e un senso di liberazione rispetto ai moduli ripetitivi del porno mainstream».
Da dieci anni la regista svedese si batte per cambiare il porno e la percezione di losco, sporco associata a quel mondo. «Quello tradizionale mi fa vomitare. Lo trovo antiestetico, antierotico. Riflette le fantasie maschili di un’industria dominata da noiosi sciovinisti con poca intelligenza sessuale, dove tutto è in funzione del piacere maschile. Non c’è gioco, divertimento, creatività. In XConfessions, come nei miei film, gli uomini adorano le donne. E le donne non sono solo un veicolo per il loro orgasmo: puoi vedere il loro desiderio, la loro eccitazione crescere. Il piacere è condiviso al 50%». Nelle confessioni non ci sono timide sprovvedute come l’Anastasia di 50 sfumature di grigio, ma donne audaci che non temono di esprimere la sessualità. In una, una ragazza adora uno chef. Gli fa cucinare una cena per 12 ma si presenta da sola a tavola e lo seduce. In un’altra, intitolata non a caso Power Pussy, un uomo sposato con una donna molto forte dice che lei lo eccita perché, anche dopo 20 anni, non riesce a domarla. In un’altra ancora, I met a mother on Tinder – un ragazzo ha una storia con una 48enne incontrata con un’app.

Erika Lust, nata a Stoccolma nel 1977, laurea in Scienze politiche a Lund, ha iniziato la sua carriera una decina di anni fa con un film, The Good Girl, che ebbe un’inaspettata fortuna sulla rete: più di un milione di download. Ma all’inizio nessuno la prendeva sul serio. «Sono da sempre un’outsider. I produttori mi dicevano che quello che facevo era carino ma che ero nel business sbagliato, perché alle donne il porno non interessava. Ora invece sperano tutti di conquistare l’audience femminile». Erika ha costruito la Lust Films, in collaborazione col marito, produttore, Pablo Dobner, passo passo, arrivando a uno staff di 15 persone e un giro d’affari di 500mila euro l’anno. In Svezia non è famosa quanto in Spagna «perché gli svedesi sono aperti sul sesso ma hanno dei problemi con la pornografia». In effetti non ama essere chiamata regista di porno, ma di «film indipendenti per adulti», perché il mondo del porno non l’ha mai frequentato: la sua ambizione è sempre stata reinventarlo. «Per me è una maniera di parlare di relazioni e di ruoli con un linguaggio potente. Oggi molti ragazzi vedono film espliciti prima di avere esperienze sessuali e questo li forma senza che se ne rendano conto: imparano che le donne vogliono essere dominate, che sono al loro servizio. Provano vergogna e confusione. Credo che il porno possa invece aiutare a sentirci meglio. Sono felice quando mi dicono che i miei film sono belli, li regalano agli amici o li guardano in coppia. Sento di avere un impatto sulla sessualità. Ma bisogna cambiare il linguaggio e questo succederà quando cambierà chi sta dietro la macchina da presa. Spero che partecipino più donne. Il sesso può rimanere “sporco” ma i valori che ci sono dietro devono essere puliti».

TE LO DICO IN PRIVÉE
La sala d’attesa di un medico, un autobus in corsa. Incontri casuali carichi di aspettative, elettricità, dove basta guardarsi per un attimo e tutto può succedere. Immagini acustiche narrate da voci maschili, calde, sensuali. Sul sito italiano Sexion Privée le fantasie femminili vengono raccolte (in forma anonima e non) e poi raccontate da professionisti, a cadenza settimanale. Un training autogeno verso il piacere, costruito solo attraverso il tono e il ritmo delle voci, per perdersi con la testa e con il corpo, interamente dedicato alle donne. Il progetto di questo “sex toy acustico” è nato da un’idea di Lara Dittfeld, laurea in Bocconi e un solido background nel mondo della moda, del lusso e dell’arte (info@sexionprivee.com).

 

Il sesso rende più intelligenti…   Leave a comment


Lo afferma un recente studio dell’Università di Pavia, che lega l’intensa attività sessuale allo sviluppo di un’intelligenza più acuta rispetto a chi fa sesso raramente. Ne discutiamo con la psichiatra Adelia Lucattini

Il sesso rende più intelligenti

 

I giovani amanti che fanno tanto sesso vedono un fiorire maggiore delle cellule nel cervello”: non è una poesia di Prévert ma la conclusione scientifica di uno studio pubblicato sul Berlin Zeitung, secondo il quale fare l’amore aiuta a diventare più intelligenti. La ricerca dell’università di Pavia ha infatti dimostrato i benefici dell’erotismo spiegando che tutto dipende dall’aumento dei livelli di prolattina derivante dall’esercizio fisico, dal consumo di determinati pasti ma soprattutto dai rapporti sessuali. La prolattina rilasciata durante l’orgasmo favorisce infatti l’ossigenazione cellulare del cervello e il sesso, secondo i ricercatori, non ha solo effetti positivi sullo stress ma favorisce il benessere fisico.

“L’innamoramento – spiega la psichiatra e psicoanalista Adelia Lucattini, presidente SIPSIeS, Società Internazionale di Psichiatria Integrativa e Salutogenesi di Roma – è da sempre un grande motore per la crescita individuale e sociale, è una condizione particolare in cui l’entrare in contatto con l’altro produce una serie di trasformazioni psichiche con positive ricadute anche somatiche. Dean Ornish già nel 1998 affermava che se un paziente affronta una terapia avendo una buona vita amorosa risponde più velocemente ai trattamenti e abbrevia i tempi di guarigione”.
L’innamoramento e l’amore influenzano dunque positivamente il sistema immunitario ed endocrino, favorendo il mantenimento di un buono stato di salute psicofisica.

“Sono ormai noti i meccanismi di interazione tra l’ambiente e la mente” continua Lucattini, “e i fattori ambientali che possano indurre delle trasformazioni significative a livello neuronale. In altre parole, le esperienze che le persone fanno, interagendo con l’ambiente, vengono memorizzate non solo sotto forma di ricordi ma anche come molecole neuromodulatrici all’interno delle cellule cerebrali. Va precisato che non è l’innamoramento o l’attività sessuale in sé che migliora l’intelligenza, il rendimento o la reattività. È piuttosto l’entrare in relazione con l’altro che attiva funzioni della mente fino a quel momento latenti, “disattivate” o non accessibili. Tutto questo, naturalmente, accompagnato da trasformazioni biologiche che però non sono la causa bensì la conseguenza della positività dell’interazione umana, affettiva, sentimentale e psichica”.

Negli adolescenti problematici, in cui cioè l’attività sessuale è vissuta in modo scisso, separato rispetto alla mente e all’affettività, il sesso corrisponde a una sorta di “ginnastica”. In loro, spiega l’esperta, non vi è nessun miglioramento delle performances intellettuali o delle capacità attentive né tanto meno un miglioramento dell’umore o felicità. “Si può anzi creare una sorta di corto circuito in cui l’attività sessuale, separata dall’emotività, li avvita in una ricerca spasmodica dell’altro che svuota anziché arricchire”, precisa la psichiatra.

L’innamoramento, che la psichiatria classica aveva definito una delle due malattie mentali “incurabili” insieme alla paranoia, poiché inconvincibile e totalmente impermeabile a qualunque influenza o consiglio esterno, oggi è riconosciuto come un momento di crescita evolutiva nella vita di ogni persona, a qualunque età accada, perché non ha limiti di età e produce sempre effetti positivi.
“La forza psichica di un amore felice, accompagnato da una buona vita sessuale, aumenta l’attenzione e la concentrazione, la resistenza alla fatica e la sensazione benessere fisico grazie alla produzione di endorfine, e permette delle migliori prestazioni intellettuali e un miglior rendimento nel lavoro e nello studio”, conclude Lucattini.

Pubblicato 14 giugno 2016 da sorriso47 in anima e corpo, sesso, sessualità, spiritualità

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‘Musulmane, togliete il velo che ci opprime’.   4 comments


La “sciagura” delle religioni;L’iran..scientificamente è all’avanguardia..ma la suaSpiritualità..è ferma a 1400 anni fà; secondo le Religioni..il Corano..la Bibbia ..sono testi intoccabili. Ma la Coscienza Umana..è andata avanti..quello che era avvertito dai Profeti come idoneo..oggi non lo è più..una donna può essere virtuosa con o senza lo hijab.Erano costumi legati al tempo..Ugualmente per i Cristiani..san Paolo..consigliava alle donne di portare il velo..usanza che è rimasta solo per le monache..

La giornalista iraniana Masih Alinejad, che vive in esilio, ha creato MyStealtyFreedom per raccontare la sua vita senza velo. Ora la pagina ha quasi 800mila iscritti e donne di tutte le età e condizione sociale vi pubblicano foto e video. Perché, come dice Masih, il velo è il simbolo di tutti i diritti negati alla popolazione femminile in Iran

DI MARTA CALDARA
'Musulmane, togliete il velo che ci opprime'. Le iraniane su Facebook senza  hijab
Una delle immagini postate su ‘My Stealty Freedom’

Si chiama MyStealthyFreedom ,(La mia libertà clandestina ndr) la pagina Facebook (e dal 3 maggio scorso anche un sito web), un luogo virtuale che conta quasi 800.000 iscritti, dove le donne iraniane pubblicano le proprie foto (o video) senza l’hijab, il velo islamico, obbligatorio in Iran per legge da quando lo stabilì l’Ayatollah Khomeini nel marzo 1979, subito dopo la Rivoluzione Iraniana.

La giornalista iraniana Masih Alinejad, che ora vive in esilio tra Londra e New York da quando ci furono le elezioni di Ahmadinejad nel 2009, l’ha fondata dopo aver ricevuto un sostegno inaspettato da parte delle donne iraniane, quando circa un anno fa pubblicò una sua foto senza il velo. Propose così anche a quelle donne di inviare foto in cui erano ritratte senza l’hijab. Da quel momento è stata sommersa dalle foto e dalle testimonianze di chi ha trovato il coraggio di far sentire la propria voce. La più bella è una foto che racchiude tre generazioni insieme: nonna, madre e figlia tutte e tre a capo scoperto.

'Musulmane, togliete il velo che ci opprime'. Le iraniane su Facebook senza  hijab
Una delle immagini postate su ‘My Stealty Freedom’

Si chiama MyStealthyFreedom ,(La mia libertà clandestina ndr) la pagina Facebook (e dal 3 maggio scorso anche un sito web), un luogo virtuale che conta quasi 800.000 iscritti, dove le donne iraniane pubblicano le proprie foto (o video) senza l’hijab, il velo islamico, obbligatorio in Iran per legge da quando lo stabilì l’Ayatollah Khomeini nel marzo 1979, subito dopo la Rivoluzione Iraniana.

La giornalista iraniana Masih Alinejad, che ora vive in esilio tra Londra e New York da quando ci furono le elezioni di Ahmadinejad nel 2009, l’ha fondata dopo aver ricevuto un sostegno inaspettato da parte delle donne iraniane, quando circa un anno fa pubblicò una sua foto senza il velo. Propose così anche a quelle donne di inviare foto in cui erano ritratte senza l’hijab. Da quel momento è stata sommersa dalle foto e dalle testimonianze di chi ha trovato il coraggio di far sentire la propria voce. La più bella è una foto che racchiude tre generazioni insieme: nonna, madre e figlia tutte e tre a capo scoperto.

Iran, l’imam di Isfahan: “Le donne senza velo fanno seccare il fiume”

L’incredibile affermazione è stata pronunciata durante la predica del venerdì: secondo il religioso, la scarsità di acqua del fiume Zayendeh è dovuta al fatto che molte donne si fanno ritrarre senza hijab nei pressi del corso d’acqua e poi postano le loro immagini su Facebook. E ha aggiunto che “Allah punisce chi si allontana dal Corano”

Iran, l'imam di Isfahan: Le donne senza velo fanno seccare il fiume

Sembrerebbe una favola nera, di quelle che un tempo, nell’Europa della controriforma, si raccontavano per mandare al rogo le streghe. E invece è una storia vera, e arriva dall’Iran di oggi. La riferisce il sito e profilo Facebook My Stealthy Freedom , che promuove a livello internazionale una campagna affinché le donne iraniane si facciano fotografare senza velo. La cosa non piace all’imam Yosef Tabatabei, che guida le preghiere del venerdì nella città di Isfahan

L’affermazione, fatta durante la predica del venerdì in una moschea della città iraniana, è stata ripresa dal profilo facebook My Stealthy FreedomLeggi l’articolo

Il religioso ha attribuito la persistenze mancanza d’acqua del fiume Zayendeh, che scorre in città, al fatto che un crescente numero di donne si fa fotografare davanti al panorama del fiume senza indossare lo hijab: “Ho visto molte donne che si fotografano vicino al fiume senza hijab e ho sentito che sui social media vengono incoraggiate a togliersi il velo. Sono queste donne senza velo che fanno seccare il fiume Zayandeh”.

Così commenta, in un post recente, il profilo My Stealthy Freedom : “In passato il religioso Kazen Sedigi ha dichiarato che le donne che non si vestono modestamente diffondono l’adulterio nella società e così provocano i terremoti. Ora siamo accusate di un altro disastro naturale. Pare che chi governa l’Iran abbia deciso di gettare l’onta della propria incompetenza e della propria incapacità di governo sulle donne. Con le belle foto che abbiamo fatto, noi aggiungiamo qualcosa alla bellezza della natura, non causiamo disastri naturali. Quelli sono causati dalla nostra inabilità di gestire le limitate risorse dell’Iran”.

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