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Gli uomini ombra che moriranno in carcere   Leave a comment


un articolo tutto da riflettere….guardate il video  (O.P.G di Montelupo Fiorentino)

VORREI cominciare da una domanda: voi sapete che cos’ è un ergastolo ostativo? Non è un espediente retorico: io stesso, che mi picco di conoscere le faccende penitenziarie, ho appreso solo di recente che esiste, dal 1992, una cosa che si chiama ergastolo ostativo. In breve, vuol dire che per certi reati ritenuti di particolare gravitàè esclusa senza riserve l’ eventualità che la pena carceraria finisca, o si muti in pene, come si dice, alternative: niente permessi, niente lavoro esterno, niente riduzioni di pena per buona condotta – come si potrebbe ridurre una pena che si decreta senza fine? Quel genere di condanna all’ ergastolo “osta” a qualsiasi modificazione, per quanto tempo passie per quanto cambi la persona condannata. Se questa, come immagino, è per i più una notizia, lo è tanto più perché contraddice quel luogo comune così spesso e disinvoltamente ripetuto secondo cui «l’ ergastolo in Italia non esiste», «dopo un po’ di anni escono tutti». Non escono, nemmeno per un’ ora, fino al certificato di decesso. Non sono ancora morti e non sono più vivi: per loro non vale la consolazione che finché c’ è vita c’ è speranza. E guardate che non si tratta di un pugno di casi estremi, ma di centinaia: «Talmente invisibili – ha scritto l’ Avvenire – che neanche al ministero della Giustizia sanno dire con esattezza quanti siano davvero gli ‘ ostativi’ ». Ho scritto sopra «esclusa senza riserve»: non è del tutto esatto. Perché giudicando dell’ incostituzionalità di una pena che esclude a priori la rieducazione e la risocializzazione- dettate da letterae spirito della Carta – la Corte costituzionale ha convalidato l’ unica ipotesi che prevede di romperne il rigore mortale. È il caso in cui il condannato “collabori” con la giustizia facendo i nomi di altri colpevoli. Questa eccezione ribadisce il rovesciamento di senso per cui in Italia si chiamarono “pentiti” i collaboratori di giustizia, tramutando una categoria pratica, spesso utile e altrettanto spesso detestabile, in una categoria morale. Non solo l’ assimilazione è indebita, ma può avvenire l’ opposto: che un vero intimo e non esteriore pentimento vada assieme al rifiuto o all’ impossibilità di denunciare altri. Altri che a loro volta possono aver cambiato vita per intero, sicché la denuncia varrebbea mettere in galera al proprio posto qualcuno che non costituisce da anni e magari da decenni alcun pericolo per la società. Ma lasciamo pure che questo resti un dilemma delle coscienze e del loro segreto; subordinare l’ “indulgenza” (uso questo termine perché ricorda l’ altro, della simonia) alla delazione espone il condannato a mettere oltre che se stesso la propria famiglia,a distanza di venti o trenta anni – figli, figli dei figli – nella catastrofe della “protezione”, del cambiamento di identità, di luogo, di vita, nella paura. E infine – ma non è l’ ultimo degli argomenti, al contrario – chi può escludere che fra quegli ergastolani “ostativi”, quegli “uomini ombra” come loro stessi hanno deciso di chiamarsi, ce ne siano che non hanno niente da confessare, nessuno da denunciare? Anche se si trattasse solo di una questione di principio, occorrerebbe tenerne gran conto, e del resto è uno degli argomenti (non il maggiore) invocato contro la pena di morte: il conto dei giustiziati e riabilitati negli Stati Uniti è lungo – altrove non c’ è nemmeno il conto postumo. Ma bisogna piuttosto rassegnarsi a vederlo come una tragica questione di fatto. Siamo reduci, ancora reticenti, dalla scoperta che una montatura mostruosa aveva mandato in galera all’ ergastolo, e ci sono rimaste diciott’ anni, otto persone non colpevoli, che ci sarebbero restate con quella dicitura: “Fine pena 3112-2999”. Ergastolani ostativi, per l’ assassinio di Paolo Borsellino, salvo che non erano stati loro ad assassinare Borsellino. In Italia c’ è da sempre una discussione sull’ ergastolo. Se ne è richiesta l’ abolizione come una pena disumana, vendicativa, negatrice della possibilità di riscatto e, per questo, negatrice della Costituzione. Quella discussione si è attutita, come tante altre, per il peso opprimente che la criminalità organizzata ha esercitato sul paese,e non smette di esercitare. Nelle polemiche di questi giorni si può misurare l’ ambiguità spaventosa che avvelena ogni dubbio sul 41 bis, al di là del proposito indubbio di impedire ai criminali di continuare a far male anche dalla cella. Ma le ambiguità vanno sciolte nei loro elementi nitidi, per quanto è possibile. Don Luigi Ciotti, campione dell’ impegno contro le mafie, scrive: «Giudicare insensato il carcere senza fine non è asserzione ideologicao radicalismo astratto, ma semplice constatazione». Valerio Onida, a sua volta ex presidente della Corte costituzionale e uomo arricchito da una frequentazione volontaria del carcere, ha scritto a Carmelo Musumeci, ergastolano ostativo e rianimatore degli uomini ombra: «Non mi sembra giustificato escludere in ogni caso che, anche in assenza di collaborazione, possa ritenersi in concreto il ravvedimento del condannato. Mi auguro che la questione possa essere riproposta all’ esame della Corte,o altrimenti risolta dal legislatore». Segnalai qui in passato la lezione in cui il professor Aldo Moro diceva: «Un giudizio negativo, in linea di principio, deve essere dato non soltanto per la pena capitale… ma anche nei confronti della pena perpetua: l’ ergastolo, che, priva com’ è di qualsiasi speranza, di qualsiasi sollecitazione al pentimento ed al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte ». «Non meno»: pensiero che contrasta radicalmente con tutte le forme di ripudio della pena di morte che vogliono compensarlo con l’ inflessibilità della reclusione a vita – argomento corrente soprattutto negli Stati Uniti. Continuava Moro: «Ed è, appunto, in corso nel nostro ordinamento una riforma che tende a sostituire a questo fatto agghiacciante della pena perpetua – (“non finirà mai, finirà con la tua vita questa pena!”) – una lunga detenzione, se volete, una lunghissima detenzione, ma che non abbia le caratteristiche veramente pesanti della pena perpetua che conduce ad identificare la vita del soggetto con la vita priva di libertà. Questo, capite, quanto sia psicologicamente crudele e disumano… Ci si può, anzi, domandare se non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto e lo libera, perlomeno, con il sacrificio della vita, di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella rassegnazione che è uguale ad abbrutimento, che è la caratteristica della pena perpetua. Quando si dice pena perpetua si dice una cosa… umanamente non accettabile ». «Una lunga detenzione, lunghissima…». Traggo dalla prefazione a una raccolta di scritti di ergastolani, Urla dal silenzio, questa informazione: «In Italia ci sono più di 100 ergastolani che hanno alle spalle più di 26 anni di detenzione, il limite previsto per accedere alla libertà condizionale. La metà di questi 100 ha addirittura superato i trent’ anni di detenzione. Al 31 dicembre 2010 gli ergastolani in Italia erano 1.512: quadruplicati negli ultimi sedici anni, mentre la popolazione ‘ comune’ detenuta è ‘ solamente’ raddoppiata». (Su “Ergastolo e democrazia” si terrà presso il Senato un importante convegno il prossimo 2 ottobre). Vorrei concludere provvisoriamente evocando la sentenza del tribunale norvegese che ha condannato Anders Breivik al massimo della pena prevista dal codice di quel Paese, 21 anni. Anche quei bravi norvegesi hanno dovuto amaramente sperimentare la sproporzione fra le loro leggi e lo spirito che le informa, e l’ irruzione di un’ infamia smisurata:e tuttavia hanno scelto la fedeltà a quello spirito. In Italia, molti hanno voluto commentare irridendolo. Hanno fatto il conto e intitolato il loro sdegno così: «Tre mesi per ognuno dei 77 ammazzati». Mettiamo che fosse stato condannato, quel mostro, a 63 anni: il titolo «Nove mesi per ognuno dei 77 ammazzati» sarebbe stato meno sdegnato?

ADRIANO SOFRI

Allarme suicidi in carcere: da gennaio i morti sono 19, tre tentativi al giorno

Il 2010 rischia di essere ricordato come un tragico anno record per le morti in cella: fra le cause, al primo posto il sovraffollamento e le cattive condizioni di vita dei detenuti. Ancora un suicidio in carcere, detenuto si toglie la vita nel penitenziario di Sulmona

Consegnato alla stampa, come annunciato, il video girato dalla Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale presieduta da Ignazio Marino sull’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino e sulle altre strutture simili presenti in Italia. Il video andrà in onda anche domenica prossima. 20 marzo, a Presadiretta su Raitre con il senatore del PD che sarà ospite del giornalista Riccardo Iacona. L’inchiesta riprende quanto tra l’altro il settimanale L’Espresso anticipò nell’agosto dello scorso anno.
Nel filmato non vengono fatti nomi specifici delle strutture inquadrate, ma si nota palesemente la presenza di immagini girate all’interno della villa dell’Ambrogiana.

Il video integrale viene riproposto anche da gonews.it qui in fondo, ma prima ripubblichiamo il testo di presentazione scritto da Ignazio Marino e pubblicato sul suo sito internet.

“Oltre i cancelli inizia un viaggio che riporta indietro di ottant’anni, ai tempi del Codice Rocco che istituì i manicomi. La malattia mentale resta uno stigma, una ferita da nascondere alla società tanto più se ha portato con sé aggressioni o, peggio, omicidi. Ma dietro i cancelli di ciascuno degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) non si trovano solo autori di crimini efferati: c’è chi si è vestito da donna ed è andato davanti a una scuola venticinque anni fa, chi nel 1992 ha fatto una rapina da settemila lire in un’edicola fingendo di avere una pistola in tasca, chi ha procurato danni al patrimonio della sua città perché non riceveva le cure adeguate alla sua patologia. Molti di loro hanno commesso un reato bagatellare, di quelli punibili con pochi mesi di prigione, come l’ingiuria, senza troppa consapevolezza dei successivi, possibili percorsi.

Così si finisce in OPG e si rischia di non uscire più. Per uno schiaffo o un’ingiuria si può essere condannati all’ergastolo bianco. Ecco cosa racconta il documentario della Commissione d’inchiesta: lenzuola non sostituite per settimane, lezzo di urina, tanfo e sporcizia ovunque, letti arrugginiti. In alcuni casi, letti di contenzione con un foro nel mezzo per la caduta degli escrementi di internati legati per giorni. Stanze da quattro ospitano nove internati su letti a castello (proibiti in un ospedale); spesso ogni internato ha meno di tre metri quadrati a propria disposizione, in netta violazione di quanto sancito dalla Commissione europea per la prevenzione della tortura. Questa, infatti, è tortura.

Nessun rispetto per l’identità di una persona e la sua dignità, dall’igiene più elementare al diritto alle terapie. Le medicine trasformate in camicie di forza invisibili che contengono, non curano, pochissimi medici presenti quattro ore a settimana in strutture in cui si contano anche 300 persone. Sono gli internati stessi a raccontare il degrado di chi, ad esempio, è costretto ad infilare le bottiglie d’acqua nel buco dei bagni alla turca – come e’ avvenuto all’ospedale di Aversa – per farle rinfrescare d’estate o per impedire la risalita dei topi.


La Commissione sta monitorando ogni settimana ciascuna struttura per avere notizie degli internati che dovrebbero essere stati dimessi già da mesi o anni, persone rinchiuse anche se hanno commesso un reato minore, e mai più uscite a causa delle infinite proroghe delle misure cautelari. Raccogliere i primi dati non è stato per niente semplice: reticenze, diffidenze, inesattezze hanno scandito le prime settimane di lavoro soprattutto negli OPG più degradati. Ci sono, tuttavia, OPG come quello di Reggio Emilia dove gran parte dei dimissibili hanno già lasciato la struttura. Speravamo di poter fare molto e al più presto ma abbiamo bisogno che le strutture collaborino seriamente e continuativamente. E così dovranno fare i territori: queste persone e queste situazioni sono responsabilità di tutto il Paese, non dobbiamo tollerare degrado e condizioni di vita incompatibili con il più elementare rispetto della dignità e lesivi dei principi della nostra Costituzione.


Su 376 internati dichiarati ‘dimissibili’ per ora solo 65 sono stati effettivamente dimessi, mentre per altri 115 è stata prevista una proroga della pena. Di questi ultimi, solo 5 sono ancora internati perché ritenuti socialmente pericolosi, tutti gli altri non hanno varcato i cancelli dell’OPG perché non hanno ricevuto un progetto terapeutico, non hanno una comunità che li accolga o una Asl che li assista. Il territorio li rifiuta: mancano le risorse, si dice, ma la Commissione ha ottenuto dal Governo l’impegno per uno stanziamento di 10 milioni di euro (5 del ministero della Salute, 5 del dicastero della Giustizia) per agevolare l’assistenza di coloro che da queste strutture devono uscire per essere accuditi altrove, sul territorio, con cure appropriate che li aiutino a tornare pienamente alla vita ‘libera’. Forse sarebbe più onesto dire che manca la volontà perché questi non sono pazienti psichiatrici come tutti gli altri e su di loro il pregiudizio si fa più pesante.

Sulla chiusura degli OPG si dibatte molto e da diverso tempo. La Commissione vuole chiuderne almeno tre su sei e, comunque, arrivare all’individuazione di nuove strutture a custodia attenuata da destinare al trattamento sanitario degli internati. Alla luce dei recenti fatti di cronaca che hanno coinvolto l’Opg di Montelupo Fiorentino (dove un internato è morto per aver inalato del gas) e Aversa (dove due guardie della polizia penitenziaria sono state poste agli arresti domiciliari per aver abusato di un internato transessuale), le istanze di chiusura e riforma espresse già lo scorso luglio sono ancora più urgenti”.

Ignazio Marino, presidente Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale