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Così la finanza parassitaria ci ha portato nella crisi (500° post !!! )   Leave a comment


I guasti dell’economia globale nell’ultimo libro di Federico Rampini. Le cure escogitate per contrastare la grande recessione hanno provocato distorsioni e ingiustizie. La sindrome del “Too Big to Fail” è diventata il ricatto di Wall Street nei confronti dell’intera nazione americana

di FEDERICO FUBINI

banchieri

Quando è arrivato Hibernia Atlantic, era da oltre dieci anni che non si osava prendere un’iniziativa del genere. Da quando la bolla della new economy era scoppiata al giro di boa del millennio, nessuno aveva più posato un cavo a fibre ottiche sul fondo dell’Atlantico.

Poi nel 2011 è stato fatto, qualcuno ha depositato “ventimila leghe sotto i mari” Hibernia Atlantic: ma non era un cavo come gli altri, quelli percorribili da centinaia di milioni di persone che hanno qualcosa da comunicare da una sponda all’altra dell’oceano.

No, quella era un’infrastruttura per pochi: per gli operatori del cosiddetto “high frequency trading”, gli scambi “ad alta frequenza” che puntano a registrare guadagni sul mercato azionario o sui cambi grazie alla rapidità delle operazioni misurata in millisecondi.

Sono operazioni dietro le quali non c’è alcun calcolo razionale sulla qualità di una certa azienda, sui tassi d’interesse o la forza di un’economia o sul modo migliore di allocare il capitale in modo che sia più produttivo, crei più posti di lavoro, porti crescita per tutti.

La sola cosa che conta è la velocità, a costo di perdere il controllo e destabilizzare l’intero listino principale di Wall Street come accadde per il 6 maggio 2010. E Hibernia Atlantic è un cavo che può far guadagnare “ben cinque millisecondi”, scrive Federico Rampini senza riuscire a trattenere il sarcasmo.

Corrispondente di Repubblica a New York, Rampini nel suo ultimo libro (Banchieri. Storie dal nuovo banditismo globale, Mondadori) racconta una gran quantità di storie come questa.

Lo fa per guidarci fra i paradossi dell’Occidente sei anni dopo il giorno in cui qualcosa di spezzò per sempre con il fallimento di Lehman Brothers.

“Se rinasco, in un’altra vita vorrei insegnare l’economia ai bambini – confessa l’autore – Perché crescano armati degli utensili giusti, perché nessuno li possa ingannare con il linguaggio dei tecnocrati”.

E forse Banchieri non è un libro scritto nell’idea di farlo distribuire nelle scuole elementari o medie, ma fin dalle prime pagine si avverte il tentativo di parlare ai non addetti ai lavori.

Il messaggio di fondo del libro, nello stile prima ancora che nei contenuti, è che non devono essere sempre e solo gli esperti a poter parlare con cognizione di causa delle assurdità del sistema finanziario globale. Tutti devono poter capire.
A sei anni dall’esplodere della crisi (“la Grande Contrazione”), Rampini non fa che trovare conferme di quella che per lui è la natura parassitaria delle banche. Ovunque getti lo sguardo, in Italia come negli Stati Uniti.

A New York, nota come i banchieri di Wall Street siano diventati più arroganti e i loro istituti più esposti a rischi scriteriati dopo che la Federal Reserve e il governo americano sono intervenuti per salvarli. La sindrome del Too Big to Fail, “troppo grande per fallire” (o meglio: perché si possa lasciar fallire) è diventato la realtà finanziaria delle mega-banche salvate nel 2008-2009 e implicito ricatto di Wall Street nei confronti di una nazione intera.

Il bilancio di Lehman era di 637 miliardi di dollari quando la banca saltò. Quello di Jp Morgan oggi è di 2.300 miliardi, cresciuto a dismisura proprio perché i manager dell’istituto sanno che il governo americano dovrà comunque aiutarli in caso di difficoltà, pena un’altra detonazione nucleare ancora peggiore.

Neanche l’Italia sfugge alla critica. “Nel corso del 2012 le banche hanno tagliato alle imprese italiane 44 miliardi di euro di finanziamenti”, constata Rampini. Quelle stesse case finanziarie, spesso dai nomi blasonati, hanno assorbito in silenzio la loro parte dei 500 miliardi netti – o mille miliardi lordi – di prestiti straordinari della Bce.

“I banchieri si sono incamerati gli aiuti di Draghi – accusa l’autore – ma non hanno restituito nulla al paese.

Hanno negato agli imprenditori veri le risorse indispensabili per produrre, esportare, assumere”.

Non c’è però solo l’indignazione, nel discorso di Banchieri. C’è anche una buona dose di (amara) riflessione, per esempio sul ruolo sempre più scomodo che hanno dovuto assumere le banche centrali nelle società occidentali. Quando hanno sospeso tutte le cautele e si sono messe a stampare denaro, la Federal Reserve americana o la Bank of Japan hanno sì salvato il mondo avanzato da una spirale depressiva simile a quella degli anni ’30. Ma lo hanno fatto dopo aver mancato di vedere che si sarebbe arrivati a un punto di rottura e producendo nuove distorsioni e vantaggi per i più ricchi in seguito.

La creazione di liquidità tiene a galla l’economia, ma lo fa premiando chi può investire di più nei mercati finanziari. Draghi alla Bce o Ben Bernanke alla Fed hanno assunto un ruolo che Rampini definisce di “onnipotenti”.

Ma proprio l’aver bisogno di eroi del genere dà la misura della nostra fragilità.

“Il culto della personalità – dice l’autore a questo proposito – può raggiungere talvolta delle vette imbarazzanti”.

La terza vena che attraversa il libro, forse la più sentita, è quella personale. Più che un saggio, Banchieri è il diario di una vita vissuta attraverso la crisi. La moglie Stefania che abbandona la professione di trader a San Francisco e passa a contratti a tempo, anno dopo anno, a New York.

Il fastidio all’apprendere che Kathy, l’insegnate di yoga kundalini, dia lezioni speciali per i banchieri di Goldman Sachs. Il frastuono di New York che ti insegue fino al 31 esimo piano, da cui si riesce a fuggire solo nei concerti di Bach in una chiesetta evangelica luterana vicino a Central Park. Anche questo forse è downshifting, scalare alla marcia più bassa, o downsizing, ridimensionare il tenore di vita: espressioni passate di colpo dal gergo dei grandi gruppi industriali a quello delle famiglie. E se qualcuno alla fine chiedesse dov’è la pars construens, la via d’uscita, la risposta è pronta: “Insegnate l’economia ai bambini”.

rampini

Il futuro? “Giovani, ve lo dovete prendere: a gomitate. Viaggiate! Ma non solo all’estero. Anche in Italia, per mettere in discussioni ideologie soffocanti. E scoprire le nostre eccellenze, perché è su queste che bisogna costruire”. Non è un dibattito, ma un “processo”, quello che va in scena nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale con il corrispondente di Repubblica da New York Federico Rampini e il direttore della Banca d’Italia Salvatore Rossi al Festival della Scienza. “Un processo per trovare un colpevole, e rispondere alla domanda: chi ha rubato il futuro ai giovani? — incalza Rampini, rivolgendosi ai ragazzi in sala ma anche alle tante “pantere grigie” — L’idea, radicata nel nostro Paese, è che i colpevoli siamo noi. Ovvero, quelle generazioni che hanno accumulato privilegi, che hanno vissuto l’epoca delle vacche grasse contribuendo allo spreco di risorse. Lo abbiamo sentito ripetere dai nostri governanti a iosa. Ma questa è una falsità, una mistificazione ideologica: solo in Italia si rappresenta la crisi in termini di conflitto generazionale. Giovani, faccio un appello: non siate pigri, non lasciatevi sedurre dalle ideologie che trovate sul mercato, rimettete tutto in discussione”.
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Ma dove va ricercata, la colpa della crisi? Il direttore della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, punta il dito contro gli anni Settanta: “In quegli anni — riflette — c’è stata una svolta anche negativa: oggi il denaro pubblico a disposizione è molto poco, e abbiamo un debito molto alto che ha iniziato a formarsi in quegli anni di furore ideologico. E’ in quel periodo che è stato costruito un sistema di welfare inefficiente. E quei disastri, non solo finanziari, ma anche relativi alle regole del gioco, all’istruzione, pesano ancora su di noi”.
Non è d’accordo Rampini, che invece attacca la politica di austerità ispirata dalla Germania: “Siamo prigionieri delle idee di qualche economista defunto — spiega, e parte l’applauso — l’idea che la priorità sia quella di ripianare i conti pubblici risale agli anni Trenta. Angela Merkel si riferisce a pensatori ancora più defunti di Keynes. E allora, ragazzi, non scambiate l’economia per una religione e studiatela: vi serve come cittadini per non essere succubi di queste mistificazioni ideologiche. Il debito pubblico, insegnava Keynes, non è il condensato dei peccati: è uno strumento di politica economica. Se confrontiamo i tassi di disoccupazione giovanile di altri paesi vedrete che gli Usa hanno un debito pubblico, in proporzione al loro Pil, più alto del nostro e un tasso di disoccupazione giovanile che è la metà del nostro”.
Le vere storture, piuttosto, secondo Rampini sono da ricercare altrove: “Non aver colpito fino in fondo l’evasione fiscale, per esempio. E poi, i sussidi di Stato depredati dalla Fiat: un vero esempio di capitalismo parassitario. Ecco: questo è il processo che vorrei sentire più spesso in Italia”.
Il consiglio, per i ragazzi in sala che si alzano in piedi e chiedono come fare, per riprendersi il futuro per le mani, è di «apprendere continuamente — suggerisce Salvatore Rossi — perché se una volta bastava andare a scuola e imparare le nozioni, ora il mondo cavalca un cambiamento continuo».

E poi, aggiunge Rampini, “viaggiare. All’estero, ma anche in Italia. Per scoprire, per esempio, che la città di Pechino da molti anni acquista il modello di formazione professionale dalla provincia autonoma di Trento”. Infine, dinamismo. Perché «il neolaureato americano — aggiunge Rampini — se non riceve una risposta, fa scattare il piano B: il lavoro se lo crea». Il futuro non è stato rubato: bisogna costruirselo.

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