FRIDA KAHLO,la donna,gli amori.. e l’arte   1 comment


 

C’e’ un bel filmato utile per conoscere Frida Kahlo lo potere qui sotto

Frida Khalo,ritratto con teschio

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(Frida Kahlo  su una copertina di VOGUE)

“Ho subito due gravi incidenti nella mia vita… il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego Rivera.”

Forse è proprio vero..che “tutto non succede per caso”

Frida Kahlo ha vissuto solo 47 anni..una vita marchiata da un dolore fisico indicibile..e da un’amore ..ugualmente straziante. ma l’hanno trasformata in una creatura impensabile,incredibile,inimmaginabile. 

Nacque a Coyoacán, una delegazione di Città del Messico, il 6 luglio del 1907, figlia di Guillermo Kahlo (nato Karl Wilhelm Kahlo; 1871-1941), un fotografo tedesco, nato a Pforzheim (nell’odierno Baden-Württemberg) da una famiglia ebraica di origine ungherese, e di Matilde Calderón y González, una benestante messicana di origini spagnole ed amerinde. Frida fu una pittrice dalla vita travagliata. Le piaceva dire di essere nata nel 1910, poiché si sentiva profondamente figlia della rivoluzione messicana di quell’anno e del Messico moderno. La sua attività artistica ha avuto di recente una rivalutazione, in particolare in Europa, con l’allestimento di numerose mostre. Affetta da spina bifida, che i genitori e le persone intorno a lei scambiarono per poliomielite (ne era affetta anche sua sorella minore), fin dall’adolescenza manifestò una personalità molto forte, unita a un singolare talento artistico e uno spirito indipendente e passionale, riluttante verso ogni convenzione sociale.[1] Studiò inizialmente al Colegio Alemán, una scuola tedesca, e nel 1922, aspirando a diventare medico, s’iscrisse alla Escuela Nacional preparatoria. Qui si legò ai Cachuchas, un gruppo di studenti con un berretto come segno distintivo, sostenitori del socialismo nazionale, e iniziò a dipingere per divertimento i ritratti dei compagni di studio. Il gruppo ammira il rivoluzionario José Vasconcelos e si occupava in particolare di letteratura; molte attenzioni erano riservate soprattutto a Alejandro Gómez Arias, studente di diritto e giornalista, capo spirituale e ispiratore dei Cachuchas e di cui Frida si innamorò.

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Un evento terribile, il 17 settembre 1925, all’età di 18 anni, cambiò drasticamente la sua vita e la rinchiuse in una profonda solitudine che ebbe solo l’arte come unica finestra sul mondo. Frida all’uscita di scuola salì su un autobus con Alejandro per tornare a casa e pochi minuti dopo rimase vittima di un incidente causato dal veicolo su cui viaggiava ed un tram. L’autobus finì schiacciato contro un muro. Le conseguenze dell’incidente furono gravissime per Frida: la colonna vertebrale le si spezzò in tre punti nella regione lombare; si frantumò il collo del femore e le costole; la gamba sinistra riportò 11 fratture; il piede destro rimase slogato e schiacciato; la spalla sinistra restò lussata e l’osso pelvico spezzato in tre punti. Inoltre, un corrimano dell’autobus le entrò nel fianco e le uscì dalla vagina. Nel corso della sua vita dovette subire ben 32 operazioni chirurgiche. Dimessa dall’ospedale, fu costretta ad anni di riposo nel letto di casa, col busto ingessato. Questa situazione la spinse a leggere libri sul movimento comunista e a dipingere. Il suo primo lavoro fu un autoritratto, che donò al ragazzo di cui era innamorata.

Da ciò la scelta dei genitori di regalarle un letto a baldacchino con uno specchio sul soffitto,in modo che potesse vedersi, e dei colori. Iniziò così la serie di autoritratti. “Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio” affermò. Dopo che le fu rimosso il gesso riuscì a camminare, con dolori che sopportò per tutta la vita. Fatta dell’arte la sua ragion d’essere, per contribuire finanziariamente alla sua famiglia, un giorno decise di sottoporre i suoi dipinti a Diego Rivera, illustre pittore dell’epoca, per avere una sua critica.

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5. Un marco especial le permitía escribir y pintar acostada acostado.  “Me río de la muerte, que no quita lo mejor que hay en mí …”

FRIDA KAHLO alle Scuderie del Quirinale (Laurenti, Stefania) 29 May 2014

Rivera rimase assai colpito dallo stile moderno di Frida, tanto che la prese sotto la propria ala e la inserì nella scena politica e culturale messicana. Divenne un’attivista del Partito Comunista Messicano a cui si iscrisse nel 1928. Partecipò a numerose manifestazioni e nel frattempo si innamorò di Diego Rivera.

(foto di Tina Modotti, “Diego Rivera e Frida Kahlo alla manifestazione del 1° maggio”, 1929)

Nel 1929 lo sposò (lui era al terzo matrimonio), pur sapendo dei continui tradimenti a cui sarebbe andata incontro. Conseguentemente alle sofferenze sentimentali ebbe anche lei numerosi rapporti extraconiugali, comprese varie esperienze omosessuali.[1]

L’ARTE DI DIEGO RIVERA

https://www.facebook.com/natella.kaczynska/media_set?set=a.898183703590208.1073742966.100001957596073&type=3&pnref=story

Sono stati fatti dei film biografici sulla vita di Frida

“Diego es mi hijo, mi amigo Diego, Diego es artista, Diego mi padre, Diego, mi amante, mi marido, Diego, Diego, mi madre, yo mismo soy Diego, Diego es todo. ”
Frida Kahlo incontra Diego Rivera negli anni Venti, quando lui era già un artista affermato e lei ancora una studentessa. Si sposarono nel 1929 ma dopo dieci anni divorziarono a causa dei continui tradimenti di lui (tra le sue amanti ci fu anche la sorella di Frida, Cristina Kahlo).

FRIDA KAHLO A DIEGO RIVERA, 23 LUGLIO 1935.

“Una certa lettera, vista per caso, in una certa giacca, di un certo signore, scritta da una certa signorina che viene dalla lontana e maledetta Germania, e che immagino dev’essere colei che Willi Valentiner ha mandato qui a spassarsela con scopi «scientifici», «artistici» e «archeologici»… mi ha causato molta rabbia e, a dir la verità, gelosia…
Perché dovrei essere così sciocca e permalosa da non capire che le lettere, le tresche, e insegnanti di… inglese, le modelle gitane, le assistenti di «buona volontà», le allieve interessate all’«arte della pittura» e le inviate plenipotenziarie da luoghi lontani sono solo avventure, e che in fondo io e te ci amiamo moltissimo, e anche se passiamo attraverso innumerevoli avventure, porte sbattute, insulti e lamenti a livello internazionale, continuiamo ad amarci? Credo che dipenda dal fatto che sono un tantino stupida perché tutte queste cose sono successe e si sono ripetute durante i sette anni vissuti insieme; e tutta la rabbia che ho ingoiato mi ha semplicemente fatto capir meglio che ti amo più della mia stessa vita, e che anche se tu non mi ami allo stesso modo, comunque un po’ mi ami – non è così? E pur se ne dubito, mi rimarrà sempre la speranza che sia così, e di questo mi accontento…
Amami un poco io ti adoro.”

L’amore però non era finito: un anno dopo Rivera tornò da lei. Frida e Rivera si risposarono e furono insieme fino alla morte di lei nel 1954.

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“El re-casamiento funciona bien. Poca cantidad de pleitos, mayor entendimiento mutuo, y de mi parte menos investigaciones de tipo molón, respecto a las otras damas que de repente ocupan un lugar preponderante en su corazón.Así es que tu podrás comprender que por fin ya supe que la vida es así y lo demás es pan pintado (nada mas que una ilusión).” Frida Kahlo

In quegli anni al marito Rivera furono commissionati alcuni lavori negli USA, come il muro all’interno del Rockefeller Center di New York, e gli affreschi per la Esposizione universale di Chicago. A seguito dello scalpore suscitato dall’affresco nel Rockefeller Center, in cui un operaio aveva il volto di Lenin, gli furono revocate tali commissioni. Nello stesso periodo di soggiorno a New York, Frida rimase incinta, per poi avere un aborto spontaneo a causa dell’inadeguatezza del suo fisico: ciò la scosse molto e decise di tornare in Messico col marito.

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Henry Ford Hospital 1932

Ciò che ho visto nell’acqua,

Quel che l’acqua mi ha dato (o Ciò che ho visto nell’acqua, 1938) non è solo un quadro. È un flusso di coscienza, un sommario dell’opera di Frida Kahlo, della sua vita e dei suoi traumi. È lo specchio dei suoi sogni ed incubi, un compendio del suo passato ed un punto di partenza per i suoi quadri futuri. Ricorrono gli elementi chiave della sua opera: le origini, le radici, la tradizione messicana, i simboli, il dolore. Ci sono dettagli presi da alcuni quadri precedenti, ed altri che invece si ripresenteranno nei prossimi, ad anni di distanza, come se fra le immagini emerse dall’acqua ci fossero anche premonizioni, idee in divenire.

Il grande assente è il marito, Diego Rivera, quasi un’accettazione da parte dell’artista dell’inevitabilità del loro divorzio, che infatti avverrà nel 1939. Manca anche il suo autoritratto, leitmotiv della sua opera; non c’è nemmeno una figura dalle sopracciglia accentuate, che di solito serve ad indicare la sua presenza. La traccia è nel piede destro, reso deforme dalla polio e, almeno nel quadro, ferito. È così che sappiamo che quei piedi sono i suoi, che le immagini che affiorano dall’acqua sono sue. Ma per saperlo, per capirlo, dobbiamo condividere il suo punto di vista, guardando quei piedi come se fossero i nostri – e questa è forse la chiave non solo del quadro, ma dell’opera intera di Frida Kahlo. Ed è per questo che, per vedere appieno ciò che le ha dato l’acqua, in quella stessa vasca, in quella stessa acqua, in qualche modo dobbiamo entrarci anche noi. Anche a costo di inventaci una storia che di vero non ha quasi niente.

I due decisero di vivere in due case separate, collegate da un ponte, in modo da avere ognuno i propri spazi “da artista”. Nel 1939 divorziarono a causa del tradimento di Rivera con Cristina Kahlo, la sorella di Frida.

Frida Kahlo: "Le due Frida" (1939)

(Le due Fride 1939) (non sono un critico d’arte..per me rappresenta ” Frida amata e Frida tradita”

La lettera mai spedita (scritta nel suo diario)di Frida Kahlo a Diego Rivera 

“La mia notte senza di te è un cuore ridotto a uno straccio”

La storia d’amore fra Frida Kahlo e Diego Rivera è sicuramente una delle più belle e tormentate che la storia ricordi. Entrambi pittori ed artisti tout court, si innamorano perdutamente. Frida accetta di sposarlo pur sapendo dei tradimenti ai quali sarebbe andata incontro. Uno di questi (quello di Rivera con la sorella di Frida) è talmente insopportabile da costringerla a chiedere il divorzio. Era il 1939.

“La mia notte… che non vorrei più…
La mia notte è come un grande cuore che pulsa.
Sono le tre e trenta del mattino.
La mia notte è senza luna. La mia notte ha grandi occhi che guardano fissi una luce grigia che filtra dalle finestre. La mia notte piange e il cuscino diventa umido e freddo. La mia notte è lunga e sembra tesa verso una fine incerta. La mia notte mi precipita nella tua assenza. Ti cerco, cerco il tuo corpo immenso vicino al mio, il tuo respiro, il tuo odore. La mia notte mi risponde: vuoto; la mia notte mi dà freddo e solitudine. Cerco un punto di contatto: la tua pelle. Dove sei? Dove sei? Mi giro da tutte le parti, il cuscino umido, la mia guancia vi si appiccica, i capelli bagnati contro le tempie. Non è possibile che tu non sia qui. La mie mente vaga, i miei pensieri vanno, vengono e si affollano, il mio corpo non può comprendere. Il mio corpo ti vorrebbe. Il mio corpo, quest’area mutilata, vorrebbe per un attimo dimenticarsi nel tuo calore, il mio corpo reclama qualche ora di serenità. La mia notte è un cuore ridotto a uno straccio. La mia notte sa che mi piacerebbe guardarti, seguire con le mani ogni curva del tuo corpo, riconoscere il tuo viso e accarezzarlo. La mia notte mi soffoca per la tua mancanza. La mia notte palpita d’amore, quello che cerco di arginare ma che palpita nella penombra, in ogni mia fibra. La mia notte vorrebbe chiamarti ma non ha voce. Eppure vorrebbe chiamarti e trovarti e stringersi a te per un attimo e dimenticare questo tempo che massacra. Il mio corpo non può comprendere. Ha bisogno di te quanto me, può darsi che in fondo, io e il mio corpo, formiamo un tutt’uno. Il mio corpo ha bisogno di te, spesso mi hai quasi guarita. La mia notte si scava fino a non sentire più la carne e il sentimento diventa più forte, più acuto, privo della sostanza materiale. La mia notte mi brucia d’amore.
Sono le quattro e trenta del mattino.
La mia notte mi strema. Sa bene che mi manchi e tutta la sua oscurità non basta a nascondere quest’evidenza che brilla come una lama nel buio, la mia notte vorrebbe avere ali per volare fino a te, avvolgerti nel sonno e ricondurti a me. Nel sonno mi sentiresti vicina e senza risvegliarti le tue braccia mi stringerebbero. La mia notte non porta consiglio. La mia notte pensa a te, come un sogno a occhi aperti. La mia notte si intristisce e si perde. La mia notte accentua la mia solitudine, tutte le solitudini. Il suo silenzio ascolta solo le mie voci interiori. La mia notte è lunga, lunga, lunga. La mia notte avrebbe paura che il giorno non appaia più ma allo stesso tempo la mia notte teme la sua apparizione, perché il giorno è un giorno artificiale in cui ogni ora vale il doppio e senza di te non è più veramente vissuta. La mia notte si chiede se il mio giorno somiglia alla mia notte. Cosa che spiegherebbe la mia notte, perché tempo anche il giorno. La mia notte ha voglia di vestirmi e di spingermi fuori per andare a cercare il mio uomo. Ma la mia notte sa che ciò che chiamano follia, da ogni ordine, semina disordine, è proibito. La mia notte si chiede cosa non sia proibito. Non è proibito fare corpo con lei, questo, lo sa, ma si irrita nel vedere una carne fare corpo con lei sul filo della disperazione. Una carne non è fatta per sposare il nulla. La mia notte ti ama fin nel suo intimo, e risuona anche del mio. La mia notte si nutre di echi immaginari. Essa, può farlo. Io, fallisco. La mia notte mi osserva. Il suo sguardo è liscio e si insinua in ogni cosa. La mia notte vorrebbe che tu fossi qui per insinuarsi anche dentro di te con tenerezza. Lamia notte ti aspetta. Il mio corpo ti attende. La mia notte vorrebbe che tu riposassi nell’incavo della mia spalla e che io riposassi nell’incavo della tua. La mia notte vorrebbe essere spettatrice del mio e del tuo godimento, vederti e vedermi fremere di piacere. La mia notte vorrebbe vedere i nostri sguardi e avere i nostri sguardi pieni di desiderio. La mia notte vorrebbe tenere fra le mani ogni spasmo. La mia notte diventerebbe dolce. La mia notte si lamenta in silenzio della sua solitudine al ricordo di te. La mia notte è lunga, lunga, lunga. Perde la testa ma non può allontanare la tua immagine da me, non può dissipare il mio desiderio. Sta morendo perché non sei qui e mi uccide. La mia notte ti cerca continuamente. Il mio corpo non riesce a concepire che qualche strada o una qualsiasi geografia ci separi. Il mio corpo diventa pazzo di dolore di non poter riconoscere nel cuore della notte la tua figura o la tua ombra. Il mio corpo vorrebbe abbracciarti nel sonno. Il mio corpo vorrebbe dormire in piena notte e in quelle tenebre essere risvegliato al tuo abbraccio. La mia notte urla e si strappa i veli, la mia notte si scontra con il proprio silenzio, ma il tuo corpo resta introvabile. Mi manchi tanto, tanto. Le tue parole. Il tuo colore.
Fra poco si leverà il sole.”

Rivera tornò da Frida un anno dopo: malgrado i tradimenti non aveva smesso di amarla. Le fece una nuova proposta di matrimonio che lei accettò con riserve, in quanto era rimasta pesantemente delusa dall’infedeltà del coniuge. Si risposarono nel 1940 a San Francisco. Da lui aveva assimilato uno stile naïf, che la portò a dipingere piccoli autoritratti ispirati all’arte popolare ed alle tradizioni precolombiane. La sua intenzione era, ricorrendo a soggetti tratti dalle civiltà native, di affermare la propria identità messicana.

Il suo dispiacere maggiore fu quello di non aver avuto figli. La sua appassionata (ed all’epoca discussa) storia d’amore con Rivera è raccontata in un suo diario.

http://fabricadelamemoria.com/series/cartas/279-frida-kahlo-una-pasion-desbocada

Frida Kahlo mantuvo hacia el pintor Diego Rivera un amor incondicional a pesar de ser “gordo, feo, bohemio, comunista, ateo, controvertido y vividor”, según la familia de ésta. Frida le soportó diversas aventuras amorosas cuando Diego se convirtió en su marido e incluso le perdonó la relación que éste mantuvo con su hermana Cristina.

 Frida Kahlo y Diego Rivera

 Carta de Frida Kahlo a Diego Rivera

Nonostante ..a volte affiorava la sua disperazione..e scriveva cose come questa

No obstante a veces afloraba su desesperación y le escribía cosas como esta:

“Me importa una mierda lo que piense el mundo. Yo nací puta, yo nací pintora, yo nací jodida. Pero fui feliz en mi camino. Tú no entiendes lo que soy. Yo soy amor, soy placer, soy esencia, soy una idiota, soy una alcohólica, soy tenaz. Yo soy; simplemente soy… Eres una mierda.”

Frida kahlo a Diego Rivera,(una lettera mai inviata)

 Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón, una carta nunca entregada a Diego Rivera

Ebbe numerosi amanti, di ambo i sessi, con nomi che nemmeno all’epoca potevano passare inosservati: il rivoluzionario russo Lev Trockij e il poeta André Breton, fra i tanti altri e altre. Fu amica e probabilmente amante di Tina Modotti, militante comunista e fotografa nel Messico degli anni Venti. Molto probabilmente esercitarono un certo fascino su Frida Kahlo anche la russa Aleksandra Kollontaj (1872-1952), che visse in Messico dal 1925 al 1926 come ambasciatrice di Mosca, la ballerina, coreografa e pittrice Rosa Rolando (1897-1962) e la cantante messicana Chavela Vargas (1919-2012).[2] In Messico, durante il periodo post-rivoluzionario, le donne della generazione di Frida Kahlo arrivavano all’emancipazione principalmente per il tramite della politica; probabilmente anche per la stessa ragione la pittrice si iscrisse al Partito Comunista Messicano. Inoltre, come Sarah M. Lowe afferma, “il partito presentava anche un’altra attrattiva: la presenza e la militanza di numerose donne dinamiche la cui indipendenza e autodeterminazione possono aver incoraggiato la pittrice a unirsi a loro”.

José Bartoli, l’amante segreto di Frida Kahlo

José Bartoli, l'amante segreto di Frida Kahlo.

La pittrice messicana gli scrisse 25 lettere d’amore dal 1946 al ‘49, il tempo della loro storia clandestina

La storia d’amore tra Frida Kahlo e Diego Rivera è stata piena di luci e ombre. Tante persone, liason, amori hanno condizionato il loro leggendario rapporto. Le crisi con Rivera talvolta la allontanavano da lui, ma lei gli scriveva comunque “Più mi tradisci, più io ti amo”.

Recentemente, però, è stato scoperto un carteggio che introduce una nuova figura nella storia, a volte fin troppo romanzata, della coppia messicana. José Bartoli sarebbe stato l’amante segreto di Frida per ben tre anni ma fino a qualche mese fa nessuno ne sapeva nulla.

LA STORIA CLANDESTINA – La pittrice messicana conobbe il suo José Bartoli a New York nell’agosto del ‘46. Lei era ricoverata per l’ennesimo intervento alla spina dorsale dopo il terribile incidente dell’autobus. Lui era un illustratore catalano, bello e aitante, reduce dai combattimenti della guerra civile spagnola e appena fuggito da un campo di concentramento nazista. Probabilmente il gelosissimo Diego non sapeva nulla dell’artista spagnolo che la moglie amò tanto appassionatamente. La storia con José finì senza un motivo vero e proprio motivo. S’interruppe il carteggio epistolare e la loro relazione. Fino alla morte dell’uomo, avvenuta nel 1995, molto dopo la sua Mara.

“Bartoli,ieri sera mi sono sentita come se tante ali mi accarezzassero tutta,

come se le punte delle tue dita avessero bocche che baciavano la mia pelle.

Gli atomi del mio corpo sono tuoi e vibrano insieme così che ci amiamo l’un l’altra.

Voglio vivere ed essere forte per amarti con tutta la tenerezza che ti meriti, per darti tutto ciò che c’è di buono in me, così che tu non ti sentirai solo. […]

Sento di averti amato da sempre, da prima che tu nascessi, da prima che tu fossi concepito. A volte sento di aver partorito me stessa.

Dal piccolo letto su cui sono sdraiata guardo la linea elegante del tuo collo, la raffinatezza del tuo viso, le tue spalle e la tua schiena ampia e forte.

Provo ad avvicinarmi a te il più possibile così che possa percepirti, per godere della tua incomparabile carezza, il piacere che è toccarti…

se non ti tocco, le mie mani, la mia bocca e tutto il mio corpo perdono la sensazione.

So che dovrò immaginarti quando sarai andato via. […]

Non negarmi gli altri desideri che danno completezza a ciò che provo per te e che può soltanto essere chiamato amore. […] E l’unica cosa che esiste per me in questo momento è che ti amo.

In un mondo migliore senza ipocrisia, stupidità, miseria e tradimento… non abbandonarmi. Tienimi dentro di te, ti imploro.

Voglio essere la tua casa, tua madre, la tua amante e il tuo figlio… Ti amerò dal panorama che vedi, dalle montagne, dagli oceani e dalle nuvole, dal più sottile dei sorrisi e a volte dalla più profonda disperazione, dal tuo sonno creativo, dal tuo piacere profondo o passeggero, dalla tua stessa ombra o dal tuo stesso sangue. Guarderò attraverso la finestra dei tuoi occhi per vedere te.

Bartolí – anoche sentía como si muchas alas me acariciaran toda, como si en la yema de tus dedos hubiera bocas que me besaran la piel.
Los átomos de mi cuerpo son los tuyos y vibran juntos para querernos. Quiero vivir y ser fuerte para amarte con toda la ternura que tú mereces, para entregarte todo lo que de bueno haya en mí, y que sientas que no estás solo. Cerca o lejos, quiero que te sientas acompañado de mí, que vivas intensamente conmigo, pero sin que mi amor te estorbe para nada en tu trabajo ni en tus planes, que forme yo parte tan íntima en tu vida, que yo sea tú mismo, que si te cuido, nunca será exigiéndote nada, sino dejándote vivir libre, porque en todas tus acciones estará mi aprobación completa. Te quiero como eres, me enamora tu voz, todo lo que dices, lo que haces, lo que proyectas. Siento que te quise siempre, desde que naciste, y antes, cuando te concibieron. Y a veces siento que me naciste a mí. Quisiera que todas las cosas y las gentes te cuidaran y te amaran y estuvieran orgullosas, como yo, de tenerte. Eres tan fino y tan bueno que no mereces que te hiera la vida.
Te escribiría horas y horas, aprenderé historias para contarte, inventaré palabras nuevas para decirte en todas que te quiero como a nadie.
29 de agosto (1946) Nuestra primera tarde solos.

“Io Bartoli-Jose-Giuseppe-il mio rosso, non so come si scrivono le lettere d’amore”

Invece l’artista ci ha lasciato oltre 100 pagine scritte a mano tra il 1946 e il 1949. Parole intense da cui trapela la devozione per l’uomo, e un sentimento che si muoveva fra desiderio e necessità:

http://www.lanacion.com.ar/1705202-el-otro-amor-de-frida

Mucho se ha dicho sobre la tumultosa relación de la pintora mexicana con Diego Rivera, pero muy poco del romance que ella mantuvo, durante diez años, con Nickolas Muray, fotógrafo de celebridades

Esas cartas fueron a parar a manos del psiquiatra y escritor mexicano Salomón Grimberg, quien se ha dedicado a estudiar la vida de Frida. En 2005 reunió el material en el libro Nunca te olvidaré. De Frida Kahlo para Nick Muray: fotografías y cartas inéditas. Así es posible apreciar lo que en Kahlo -quien externalizaba todo- despertó aquel amor. En una de las misivas, fechada en París, en 1939, escribe: Mi adorable Nick, esta mañana, después de tantos días de espera, llegó tu carta. Me sentí tan feliz que, antes de comenzar a leerla, me puse a llorar. Mi niño, realmente no puedo quejarme de nada en la vida mientras tú me ames y yo a ti. Es tan real y hermoso que me hace olvidar todo los dolores y los problemas, incluso me hace olvidar la distancia.

En otra se lee: En una escultura cerca de la chimenea, veo, claramente, a la primavera brincando en el aire, y puedo oír tu risa, justo como la de un niño, cuando te sale bien. Oh, mi querido Nick, te quiero tanto. Tanto te necesito, que me duele el corazón.

Frida Kahlo en Nueva York, 1946. Foto: Nickolas Muray.

Nickolas Muray y Frida Kahlo, en la Casa Azul. Coyoacán, Ciudad de México, 1939.

L’amore di Frida kahlo per Carlos Pellicer

Noviembre de 1947
No sé cómo me atrevo a escribirte, pero ayer dijimos que me hará bien
Perdona la pobreza de mis palabras, yo sé que tú sentirás que te hablo con mi verdad, que ha sido tuya siempre, y eso es lo que cuenta
¿Se pueden inventar verbos? Quiero decirte uno:
Yo te cielo, así mis alas se extienden enormes para amarte sin medida
Siento que desde nuestro lugar de origen hemos estado juntos, que somos de la misma materia, de las mismas ondas, que llevamos dentro el mismo sentido Tu ser entero, tu genio y tu humildad prodigiosos son incomparables y enriqueces la vida; dentro de tu mundo extraordinario, lo que yo te ofrezco es solamente una verdad más que tú recibes y que acariciará siempre lo más hondo de ti mismo Gracias por recibirlo, gracias porque vives, porque ayer me dejaste tocar tu luz más íntima, y porque dijiste con tu voz y tus ojos lo que yo esperaba toda mi vida
Para escribirte mi nombre será Mara, ¿de acuerdo?
Si tú necesitas alguna vez darme tus palabras, que serían para mí la razón más fuerte de seguir viviéndote, escríbeme sin temor a “Lista de Correos”, Coyoacán ¿Quieres?
Carlos maravilloso,
Llámame cuando puedas, por favor

Mara  (està per Maravilla..il nome con cui la chiamava Carlos)

Carlos Pellicer se encarga de las palabras de despedida, su carta para la eternidad:

Carlos Pellicer è incaricato per il discorso funebre,la sua lettera per l’eternità

“Una semana antes de tu partida, ¿te acuerdas?, yo estaba contigo, sentado en una silla, muy cerca de ti, contándote cosas, leyéndote los sonetos que había escrito para ti y que tanto te gustaban, y a mí también me gustaban porque a ti te gustaban. La enfermera te había inyectado. Creo que eran las diez. Comenzabas a dormirte y me habías indicado que me acercara. Te besé y puse tu mano derecha entre mis manos. ¿Te acuerdas? Luego, apagué la luz. Tú te dormiste y yo me quedé un momento para velar tu sueño. Afuera el cielo barrido, inundado, me acogió misteriosamente como tiene que ser. Me pareció que ya no podías más. Te confesaré que lloré por la calle cuando me dirigía al autobús para irme a mi casa. Ahora que por fin has encontrado la salvación para siempre, quisiera decirte, más bien repetirte, repetirte… En fin, tú lo sabes bien… Tú, como un jardín pisoteado por una noche sin cielo. Tú, como una ventana azotada por la tempestad. Tú, como un pañuelo empapado de sangre. Tú como una mariposa llena de lágrimas, como un día aplastado y roto, como una lágrima en un mar de lágrimas; araucaria cantarina, victoriosa, rayo de luz en el camino de todo el mundo… “Siempre estarás sobre la tierra viva, siempre serás motín lleno de auroras, la heroica flor de auroras sucesivas.”

“Una settimana prima che tu partissi,ti ricordi?Ero con te seduto su una sedia vicinissimo
a te,ti raccontavo delle cose, ti leggevo dei sonetti,che avevo scritto per te e che tu
amavi e anch’io li amavo perché li amavi tu. L’infermiera ti ha fatto la puntura alle 10.
Cominciavi ad addormentarti e mi hai fatto cenno di avvicinarmi. Ti ho abbracciata e ho
preso la tua mano destra fra le mie,ti ricordi? Poi ho spento la luce, ti sei addormentata
ed io son rimasto un instante per vegliare sul tuo sonno. Fuori, il cielo spazzato via,
inondato, mi ha accolto misteriosamente, mi sei parsa allo stremo delle forze,in strada
ho pianto mentre andavo alla ricerca dell’autobus, per tornare a casa. Ora che hai
finalmente ritrovato la tua salvezza per sempre,vorrei dirti…ripeterti…lo sai bene!
Tu, come un giardino calpestato da una notte senza cielo,tu come una finestra
frustata dalla tempesta,tu come un fazzoletto trascinato nel sangue,tu come una
farfalla piena di lacrime,come un giorno schiacciato e rotto,come una lacrima in un
mare di lacrime, arancaria che canta ,raggio di luce sul cammino di tutto il mondo!”

QUELLO FRA CARLOS E FRIDA FU UN GRANDE AMORE, SEPPUR VISSUTO E SOFFERTO
NONOSTANTE LEI FOSSE GRAVEMENTE AMMALATA,UNA STORIA STRUGGENTE….
LEI GRANDE E AMMIRATA PITTRICE E NON SOLO, LUI AFFERMATO POETA ED
ARCHEOLOGO. ENTRAMBI MESSICANI .

Sonetos de Carlos Pellicer a Frida

Sonetos de Carlos Pellicer por Frida Kahlo

Con il passare degli anni, però, la salute peggiora. Nel 1953, sotto la minaccia di cancrena, le viene amputata la gamba destra. Eppure il suo ultimo dipinto, eseguito otto giorni prima di morire, è un estremo omaggio reso alla vita. Ritrae dei cocomeri che si stagliano, verdi e rossi, su un cielo azzurro e sulla polpa succosa e sensuale di una delle fette è scritto Viva la Vida. Un inno alla vita che nell’ultima pagina del suo diario acquista invece la forma di un addio definitivo: «Spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai indietro».

Frida Khalo ,viva la vida

Self-Portrait with Thorn Necklace and Hummingbird, 1940, By Frida Kahlo

Frida Kahlo- Opere

(alla pagina sopra indicata,troverete la descrizione del quadro. Inoltre,scorrendo verso il basso della pagina, ci sono altre immagini che potrete ingrandire)

Il mondo segreto di Frida Kahlo: abiti e accessori tornano alla luce
Alla morte di Frida Kahlo, nel 1954, suo marito, il pittore Diego Rivera, chiuse tutte le cose di sua proprietà in un bagno della loro casa di Messico City, chiedendo che la porta venisse aperta 15 anni dopo la propria morte. Rivera, che aveva sposato due volte la pittrice messicana, alla quale era stato sempre infedele (tradimenti che a sua volta Frida visse con alcuni dei più grandi nomi della sua epoca, da Trotsky a Tina Modotti), morì nel 1957. In realtà la stanza è rimasta chiusa fino al 2004 e nel 2013 il fotografo giapponese Ishiuchi Miyako ha potuto fotografare abiti, accessori e ogni oggetto privato della grande artista, creando un catalogo senza precedenti. Quelle immagini, dal grande valore storico, sono in mostra dal 14 maggio al 12 luglio presso la Michael Hoppen gallery di Londra. Si possono ammirare abiti e accessori che ricordano i quadri di Frida, che a causa degli anni di immobilismo, causati dal pauroso incidente che le martoriò il corpo facendola vivere fino a 47 anni in preda a dolori indicibili, realizzò molti autoritratti

GALLERIA FOTOGRAFICA

Il mondo segreto di Frida Kahlo: abiti e accessori tornano alla luce

http://d.repubblica.it/moda/2015/05/06/foto/abiti_frida_khalo_ishiuchi_miyako_mostra_esibizione_michael_hoppen_gallery-2596880/1/#share-top

Nude portrait di Frida Khalo

EL GALERISTA NEOYORQUINO JULIEN LEVY REALIZÓ EN 1938 UN PECULIAR REGISTRO FOTOGRÁFICO DE LA PINTORA MEXICANA FRIDA KAHLO

http://pijamasurf.com/2015/11/de-pintora-a-modelo-retratos-de-frida-kahlo-realizados-por-julien-levy/

Frida Khalo por Julian Levy

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Philadelphia Museum,nude portrait of Frida Kahlo (by Julien Levy

 

“Escoge un amante que te mire como si quizás fueras magia”. Frida Kahlo http://t.co/LwtqqenSBJ

"No lo sabía yo entonces, pero Frida ya se había vuelto lo más importante de mi vida".  Diego Rivera http://t.co/iSSlw88DKz

9. “Me encanta el gran macho mexicano, que buscaba desde hace mucho tiempo.” Diego Rivera era mayor que Frida por 20 años gordo y mujeriego, con una lista de amantes interminable. Sin embargo, Frida se comprometió a casarse con él e intentar darle un hijo.

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La bi-sessualità di Frida    (?)

“Vissi d’arte, vissi d’amore”: gli amori saffici di Frida Kahlo

Vissi d’arte,vissi d’amore

Un giorno un uomo mi ha detto che facevo l’amore come una lesbica. Sono scoppiata a ridere. Gli ho chiesto se era un complimento. Mi ha risposto di sì.

Allora, gli ho raccontato che a mio avviso una donna gode con tutto il corpo, e che questo era il privilegio dell’amore fra donne. Una conoscenza più profonda del corpo dell’altra, suo simile, un piacere più totale. Il riconoscimento di un’alleata.

Nonostante l’avventura molto superficiale in cui ero stata coinvolta nella mia adolescenza, non sono sicura, se non avessi avuto l’incidente, che non avrei di nuovo sperimentato l’amore con un’altra donna.” [Rauda Jamis, Frida Kahlo, trad. di Flavia Celotto, TEA, Milano 2003, p. 212].

(questo suo discorso sembrerebbe sconfessare rapporti sessualmente lesbici..ciò non toglie che avesse amicizie intime con donne..anche lesbiche)

L’attrazione di Frida per le donne si può individuare già nella sua prima infanzia, quando strinse un tenerissimo e duraturo rapporto con l’amica Isabel Campos, ma si intensifica durante i suoi ultimi anni:“con il passare degli anni e via via che le sue condizioni fisiche le rendevano più difficili i rapporti con l’altro sesso, Frida si rivolse sempre di più verso le donne, sovente le donne legate sentimentalmente a Diego in quel momento” [H. Herrera, Frida. Vita di Frida Kahlo, cit., p. 247].

Ma ancora esemplare resta il rapporto che ebbe con la bellissima moglie di André Breton, Jacqueline Lamba (1910-1993); sicché alquanto eloquente risulta essere un frammento della lettera che Kahlo invia alla pittrice francese nell’aprile del 1939:

Da quando mi hai scritto, in un giorno così limpido e lontano, volevo spiegarti che non posso allontanarmi dai giorni né tornare indietro nel tempo fino a un’altra epoca. Non ti ho dimenticata – le notti sono lunghe e difficili. L’acqua. la nave, il molo e la partenza che ti rendeva così piccola ai miei occhi imprigionati in quella finestra rotonda che guardavi per conservarmi nel tuo cuore. Tutto ciò è intatto. Poi vennero i giorni, nuovi di te. Oggi vorrei che il mio sole ti toccasse. La tua bambina è la mia bambina, i burattini, sistemati con ordine nella grande stanza di vetro, appartengono ad entrambe. Lo huipil con i nastri violetti e rossicci è tuo. Mie le vecchie piazze della tua Parigi […]” [cit. da R. Fiocchietto, op. cit.].

Jacqueline Lamba dans un aquarium III – 1934

 

Jacqueline Lamba e Frida Kahlo, 1938

 

Fra le tante amanti o amiche intime di Kahlo si possono ricordare: la rivoluzionaria cubana Teresa Proenza, Elena Vàsquez Gòmez, l’artista Machila Armida, la poetessa Pita Amor,

 

la cantante Chavela Vargas, con la quale convisse per un certo periodo,

Esta carta la escribió Frida Kahlo a Carlos Pellicer. Y marca el inicio de nuestra gran amistad. Dice así: Carlos:        Hoy conocí a Chavela Vargas. Extraordinaria, Lesbiana, es más se me antojó eróticamente.No sé si ella sintió lo que yo. Pero creo que es una mujer lo bastante liberal que si me lo pide no dudaría un Segundo en desnudarme ante ella. Cuántas veces no se te antoja un acostón y ya.Ella repito es erótica.Acaso es un regalo que el cielo me envía.    Frida K.:

“Ama sin medida, sin límite, sin complejo, sin permiso, sin coraje, sin consejo, sin duda, sin precio, sin cura, sin nada. No tengas miedo de amar, verterás lágrimas con amor o sin él”, decía la dama del tequila, la mujer que intentó frenar sus excesos para resistir la vida que amaba y el amor que anhelaba y que a veces declaraba inexistente, como un invento de las noches de borracheras, esas que la hicieron leyenda y que la anclaron en los bares para siempre en el recuerdo. Allí está el histórico Tenampa de Ciudad de México, con un mural donde Chavela brinda con sus amigos de siempre: Pedro Almodóvar, Frida Khalo, Miguel Bosé, Joaquín Sabina, José Alfredo Jiménez, María Cotrina, con quien vivió hasta los últimos días de su vida.

l’attrice Maria Félix, quest’ultima dipinta tra le sue sopracciglia in un autoritratto, nonché l’amante ventiduenne della stessa Félix, una bellissima rifugiata spagnola che le fa da infermiera e dama di compagnia.

Ebbe contatti anche con l’attrice lesbica Dolores del Rio,cui regala il quadro intitolato 

Due nudi in una foresta, raffigurante due donne in un esplicito atteggiamento erotico.

Due nudi nel bosco (Frida Kahlo, 1939)

Oppure si può ancora ricordare Judith Ferreto, una lesbica costaricana che Frida chiama scherzosamente “generale fascista”, per il carattere irremovibile [R. Fiocchetto, op. cit.].

Inoltre, pare che per un certo periodo la figlia della marchesa Casati, Cristina Casati Hastings, ebbe una breve storia d’amore con Kahlo [vd. Patrick Marnham, Dreaming With His Eyes Open: A life of Diego Rivera, California 2000], durante la quale quest’ultima disegnò un ritratto dell’amica:  “Un disegno a matita dice molto dell’altezzosa e sofisticata Lady Cristina Hastings, nata a Milano e educata a Oxford. L’aristocratica signora oscillava tra stati di noia assoluta e rabbia o umorismo esplosivi, che Frida trovava congeniali e divertenti.” [vd. H. Herrera, Frida. A biography of Frida Kahlo, Bloomsbury Publishing, London 2003, p. 122; questo frammento non compare nell’edizione italiana consultata(!)].

Le due amiche s’incontrarono a San Francisco, dove il visconte Hastings, da tempo interessato all’opera muralista di Rivera e intenzionato a conoscerlo, vi si era trasferito insieme alla moglie. Tra i quattro nacque un’amicizia che durò fino agli anni Trenta [Scot D. Ryersson, Michael Orlando Yaccarino, Infinita varietà. Vita e leggenda della Marchesa Casati, prefazione di Quentin Crisp, trad. di Elisabetta De Medio, Corbaccio, Milano 2003, pp. 234-235].

Inoltre, Kahlo – in segno d’amore – era solita appendere alla spalliera del letto alcune fotografie, tra queste vi era quella di Pita Amor, e scrivere a caratteri rossi i nomi delle persone che amava, il nome di María Félix è il primo della lista che adorna la camera da letto di Coyoacán:“Casa di Irene Bohus, Camera di María Félix, Frida Kahlo e Diego Rivera, Elena [Vazquez Gomez] e Teresita [Poenza], Coyoacán 1953,Casa di Machila Armida.” [cit. da R. Jamis, op. cit., p. 230].

cazadordementes: Maria Félix, Diego Rivera, Armando Valdés Peza, Frida, y Enrique Alvarez F. 1950.

Maria Félix, Diego Rivera, Armando Valdés Peza, Frida, y Enrique Alvarez F. 1950.

Autoritratto con il ritratto di Diego nel petto e María nelle s

Diego en el pecho y María (Felix)entre las cejas 1954

Después de 1951, Frida sufría dolores tan fuertes que ya no era capaz de trabajar sin tomar sedantes…a veces con alcohol. Su medicación, cada vez más fuerte, podría ser la razón de que sus pinceladas cada vez eran menos precisas, las capas de pintura más gruesa, en contraste con el preciso detalle de sus cuadros anteriores.
Este es el ultimo autorretrato de Frida. En este autorretrato, Frida se pintó como una mujer joven con un retrato de Diego en su pecho y una cara que parece Jesucristo en el sol. Como prueba de que nunca perdió su sentido del humor, pintó un retrato de la actriz Maria Félix en su frente (Maria Félix fue una de las amantes de Diego).

Adolfo Best Maugard  Frida Kahlo

Come si evince dalla lista, il nome della stessa pittrice appare accanto a quello del marito. Infatti, la pietra di paragone restava sempre Rivera, suo maestro e consorte. Kahlo stessa scrisse a uno dei suoi amanti che soltanto Diego avrebbe sempre occupato il posto più caldo del suo cuore.

Durante i mesi che seguirono il suo ritorno a San Angel Frida divenne sempre più la compañera e la complice di Diego. Lo assecondava, lo curava quando era ammalato, lottava contro di lui, lo puniva e lo amava. Lui la sosteneva, era orgoglioso dei suoi successi, ne rispettava le opinioni, la amava… e continuava a scopare a destra e a sinistra. Adesso, sempre più di frequente, lo faceva anche lei [H. Herrera, Frida. Vita di Frida Kahlo, cit., p. 131].

Le numerose relazioni extraconiugali, sia con donne sia con uomini, che la pittrice intrattenne con lo stesso trasporto romantico e passionale di sempre, erano sicuramente dovute alla difficile realtà coniugale che viveva con Rivera e al fatto che doveva confrontarsi continuamente con un amore non ricambiato con la stessa intensità. Rivera, dal canto suo, che aveva un debole per donne forti e indipendenti, sovente lesbiche, la spingeva tra le braccia delle sue amanti (per esempio, Frida diventa amica della ex moglie del consorte Guadalupe Marín), o delle donne che egli corteggiava invano, e talvolta se ne innamorava (come nel caso di María Félix), mentre dimostrava un forte e talvolta violento sentimento di gelosia nei confronti degli uomini. La loro unione appare subito caratterizzata da un’accentuata ambivalenza:

“La tua sessualità è ambigua, si legge nei tuoi quadri”, a volte mi è stato detto.

Credo che alludessero alle opere in cui il mio viso ha tratti mascolini, o ad alcuni particolari: in un tale quadro, to’, c’è una lumaca, simbolo di ermafroditismo… Ah, sì, e i miei eterni “baffi”! A questo proposito, devo confessarlo: è una storia con Diego. Una volta mi sono azzardata a depilarli, ed è andato su tutte le furie. A Diego piacciono i miei baffi, segno di distinzione, nell’Ottocento, delle donne della borghesia messicana che in al modo stentavano le loro origini spagnole (l’indio, si sa, è imberbe). 

Credo che l’individuo sia molteplice: un uomo porta il segno della femminilità; una donna porta l’elemento uomo; entrambi portano in sé il figlio [R. Jamis,op. cit., p. 212].

Diego è eccitato dall’aspetto androgino di Frida, mentre la moglie dal grasso seno del marito:

È vero comunque che tanto Frida che Diego avevano sempre avuto un ben preciso versante androgino; entrambi erano attratti da ciò che del proprio sesso vedevano nel partner. Rivera amava «l’aria da ragazzino» di Frida e i suoi baffi da «Zapata»: una volta che se li rasò, andò su tutte le furie. Del marito lei amava la morbidezza e la vulnerabilità e anche i seni da uomo grasso; era quella la parte di Diego che Frida sapeva le avrebbe assicurato per sempre il bisogno del marito [H. Herrera, Frida. Vita di Frida Kahlo, cit., pp. 247-248].

La stessa Kahlo scrisse di Rivera: “Del suo petto bisogna dire che, se fosse sbarcato sull’isola governata da Saffo, non sarebbe stato giustiziato dalle guerriere. La sensibilità dei suoi seni meravigliosi lo avrebbero fatto ammettere. Persino così la sua virilità, così specifica e strana, lo rende desiderabile anche dove dominano imperatrici avide di amore mascolino” [cit. da Ibidem, p. 248].

L’amico della pittrice, van Heijenoort, nel suo libro di memorie In esilio con Trockij. Da Prinkipo a Coyoacan(Feltrinelli, Milano 1980) sottolinea il fatto che il lesbismo di Kahlo “non la rendeva mascolina. Era una specie di efebo, con l’aria da ragazzino e allo stesso tempo enfaticamente femminile” [cit. da H. Herrera,Frida. Vita di Frida Kahlo, cit., p. 132]. Un aspetto di cui ella si riappropriava ogni volta che si separava da Rivera, tagliandosi i capelli e indossando i pantaloni; inoltre, questo era un modo per liberarsi dei simboli codificati del femminile al fine di sancire la propria indipendenza: “Che nei tardi anni quaranta la parte mascolina di Frida si facesse più pronunciata è visibile negli autoritratti: diede ai suoi lineamenti un tocco più mascolino che mai, facendosi i baffi ancora più scuri di quanto in realtà non fossero” [Ibidem, p. 248].

Nella sua arte, a carattere fortemente autobiografico, se da una parte Kahlo si rappresenta come amazzone (vd. Autoritratto con i capelli tagliati, 1940), donna emancipata da qualunque stereotipo sociale, culturale e sessuale, dall’altra però fissa sulla tela un’immagine fortemente femminile, seducente, di moglie attenta nel compiacere il marito.

Anche il lesbismo di Kahlo non è mai esplicito nelle sue tele: “Come tutto ciò che riguarda la sua vita intima, il lesbismo di Frida appare nella sua arte. Ma non apertamente. Insieme all’amore di sé e alla dualità psichica. È suggerito negli autoritratti doppi e emerge in molti dipinti come una specie di atmosfera, una sensualità così profonda da essere sgombra delle polarità sessuali convenzionali, una fame di intimità così urgente da ignorarle differenze di genere” [Ibidem, p. 132].

Concludendo, Frida Kahlo spese la sua vita in una coraggiosa battaglia contro la sofferenza e le avversità che riuscì ad affrontare con un’incredibile forza creativa; forza che le venne, oltre da se stessa, dal suo profondo bisogno di amare e di essere amata sia da uomini sia da donne: Tlazolteotl, dea dell’amore, dev’essere stata dalla mia parte. Sono stata amata, amata, amata – non abbastanza, ancora, perché non si ama mai abbastanza, poiché una vita non basta. E ho amato incessantemente. Nell’amore, nell’amicizia. Uomini, donne” [R. Jamis, op. cit., p. 212].

 

gli Alieni esistono?   Leave a comment


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Pubblicato 13 febbraio 2024 da sorriso47 in alieni

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Gino Bartali e Fausto Coppi al Musichiere (1959)   Leave a comment


 

Gino Bartali e Fausto Coppi in una divertente apparizione televisiva al Musichiere di Mario Riva nel 1959, che ci mostra la loro amicizia e lealtà anche fuori dalle corse ciclistiche. I due scherzano prestandosi al gioco durante la trasmissione. Invitati da Riva ad esibirsi in una performance canora, sfilano davanti al ghigno bonario e divertito del presentatore, cantando “Come pioveva” in versione parodistica. “Fummo rivali però cordialmente, fummo nemici ma sempre lealmente…”. Immense le gesta da parte del Campionissimo e dell’Uomo di Ferro. Non possiamo dimenticare l’episodio storico dello sport per eccellenza, che è ancora rappresentato nella sede della Gazzetta dello Sport: il famosissimo scambio della borraccia, avvenuto al combattutissimo Tour 1952, che Fausto vinse facendo doppietta dopo quello che dovette sudarsi moltissimo nel 1949. Non si saprà mai chi dei due passò la borraccia all’altro in quell’episodio, certo è che Bartali e Coppi, due uomini veri e onesti, si scambiarono la borraccia in molte altre occasioni. In ogni caso quell’immagine notissima ha un che di poesia sportiva che non potrà mai essere dimenticato. Fausto Coppi morirà pochi mesi dopo, alle 8.45 del 2 gennaio 1960, stroncato dalla malaria contratta nell’Alto Volta e scambiata per polmonite all’ospedale di Tortona.

Pubblicato 10 febbraio 2024 da sorriso47 in spiritualità

L’ultima intervista di Furio Colombo a Pier Paolo Pasolini   Leave a comment


“Siamo tutti in pericolo”, L’ultima intervista a PPP, di Furio Colombo (1. XI.1975)

https://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/pagine-corsare/la-vita/morte/siamo-tutti-in-pericolo-lultima-intervista-a-ppp-di-furio-colombo-1-xi-1975/

“Siamo tutti in pericolo”. L’ultima intervista  di Furio  Colombo
testo ripubblicato in  
“l’Unità” –  9 maggio 2005

Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre, fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione, che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista.
Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”».

Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò «la situazione», e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La «situazione» con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della «situazione». Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo…
Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo», non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, «la situazione», e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo.

Ecco, descrivi allora la «situazione». Tu sai benissimo che i tuoi interventi e il tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella ma si può anche vedere (o capire) poco.
Grazie per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione Parigi brucia tutti sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita (un frutto del tempo è che «lava» le cose, come la facciata delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per «scegliere». Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia). Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e «collabora» (mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal «potere»?

Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?
Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.

Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.
Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo. È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.

E qual è la verità?
Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire «evidenza». Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è «stare con i deboli». Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.

Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai in genere molto successo popolare, cioè sei «consumato» avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta?
A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma.

Come dire che hai nostalgia di quel mondo.
No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere «di che segno sei». Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse – se ha ancora un soffio di vita – in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa-effetto, prima loro, prima lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la «situazione». È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del «cantando sotto la pioggia». Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.

E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici.
Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che viene con maschere e con bandiere diverse. E’ vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato «la vita violenta». Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.

Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri, per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente, salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta) e se non vogliamo usare la repressione «più avanzata»…
Che mi fa rabbrividire.

Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio?
Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non so quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.

Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?
Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.

Pasolini, se tu vedi la vita così – non so se accetti questa domanda – come pensi di evitare il pericolo e il rischio?
È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande.

«Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina».

Il giorno dopo, domenica, il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini era all’obitorio della polizia di Roma.

 

il circo Gratta a Firenze negli anni del dopoguerra   Leave a comment


IL CIRCO GRATTA di Evaristo Caroli (da un’articolo di Riccardo Bitossi)
Nella vostra ricerca del particolare poco conosciuto, arriverete sicuramente in via Pietrapiana dal parcheggio di Sant’Ambrogio oppure scendendo da via del Corso. In qualsiasi modo ci arrivate sicuramente noterete il Palazzo delle Poste, in angolo con via Verdi, ebbene non ci credereste ma prima che il famoso architetto G. Michelucci costruisse questo palazzo, qui risiedeva per molti giorni l’anno, il famosissimo Circo Gratta. Questo circo stazionava in Campo di Marte tre mesi l’anno ma portava, in via Pietrapiana, un piccolo tendone o forse no, dove si esibivano alcuni artisti dello stesso circo. Lo guidava il capostipite: all’anagrafe faceva Evaristo Caroli, ma per tutti era semplicemente “Il Gratta”, un clown di altri tempi, iniziato al mestiere circense dalla nonna. Insieme a lui la moglie Sara, brava cavallerizza, i loro sei figli (già esperti trapezisti, giocolieri, acrobati), e un ben assortito gruppo di amici. C’erano i comici (un nome per tutti: Ugo Benci, detto Ughino), i cantanti, la cartomante e il suonatore di mandolino. E naturalmente c’era lui, il Gratta, che affidava la sua arte ad una straordinaria mimica facciale e ad una brillante abilità verbale. Io non ho ricordi del circo, ma i miei genitori lo ricordavano con piacere, personalmente mi ricordo confusamente solo la costruzione del Palazzo delle Poste finito due anni prima dell’alluvione del 1966. Concludo dicendo che in questo circo si esebiva Romano Cecconi, l’Uomo-Donna, col nome d’arte “Romanina”, famoso transessuale italiano, ebbe la carriera stroncata, come cantante, da un parroco di paese che tuonò dall’altare “In quel circo c’è un diavolo tentatore” e poi chiamò le forze dell’ordine. Gratta era l’ idolo dei bambini. Aveva una riconoscibilissima risata-urlo, gli scarponi ed oltre 100 sketch in repertorio con parodie di opere quali Il barbiere di Siviglia. Gratta fu uno dei primi circhi senza animali. Unica eccezione i cani ammaestrati di Gino Piancastelli. Vera star era il comico Ughino Benci: appariva intorno alle 23 in giacca color panna che gli stava tre volte, avanzava in pista e trasformava in arte il racconto di barzellette tipo questa: “Signore, in piscina non si può fare la pipì”. “Ma la fanno tutti”. “Già, ma mica da i’ trampolino”! Nel ’63, a Campo di Marte, vicino a Gratta, si esibiva un circo sontuoso come quello di Orlando Orfei. Così, Evaristo Caroli dovette fare un appello al suo pubblico: «Andate pure a vedere le belve feroci da Orfei, ma non tradite il vostro Gratta». Un applauso interminabile fu il segno di fedeltà eterna. Fra gli spettatori più fedeli c’ era il cantante Tony Renis che intorno alla fine degli anni ’50 si recava spesso a cenare con gli artisti sotto il tendone verde del circo. Soltanto d’estate avveniva il prodigio dell’arrivo del Circo Caroli (detto popolarmente Circo Gratta, dal nome d’arte del Clown capostipite della famiglia Caroli). Succedeva che un bel giorno – giugno, luglio o agosto non ricordo – arrivavano 3 o 4 carrozzoni colorati e come per magia nel prato disperato e bellissimo di piazza dell’ Isolotto si alzava il tendone delle meraviglie, il paese delle risate, il vero Festival di Sanremo dell’Isolotto. Le due parti dello spettacolo che mi sono rimaste sempre più impresse sono senz’altro quella del suo numero personale con l’abito da pagliaccio e quella dove faceva l’equilibrista guidando una moto. Il numero del pagliaccio era molto particolare, c’erano sì è vero alcune cadute ed anche martelloni di plastica, ma soprattutto era costituito da un lunghissimo monologo dove Gratta raccontava barzellette ed aneddoti che avevano come tema principalmente la politica. Ripensandoci oggi mi appare strano come un bambino così piccolo potesse capire quelle battute eppure senz’altro era così perché tutti ridevamo come matti. L’altro numero, infine, era quello dove Gratta guidava una moto scassata legata al palo al centro della pista e facendoci sopra ogni sorta di esercizio di equilibrismo. Ricordo ancora l’immenso puzzo che ammorbava l’aria alle sgassate di quel piccolo uomo che percorreva chilometri semplicemente girando, convinto forse che un giorno con quella moto sarebbe davvero potuto tornare da ogni suo amore abbandonato lungo il percorso di quella carovana di camion arrugginiti di un’Italia allora modesta e forse mediocre ma senz’altro stracolma di bambini sempre pronti ad attenderlo e che lo sarebbero stati anche una volta diventati uomini di un mondo senza più circhi da aspettare di nuovo e con troppe promesse da tendoni sbiaditi mai mantenute durante un tempo fragile di amori e di baci tristi accavallando le gambe sempre di fronte all’ultimo bar della sera.
Qui c’è la storia di Romano Cecconi,divenuto poi Romina Cecconi ( la Romanina) https://andreasinicatti.wordpress.com/…/un-trans…/
Un video sul circo Gratta    https://youtu.be/bfhyXlRerxA

Pubblicato 5 febbraio 2024 da sorriso47 in spiritualità

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Un trans divenuto donna,Romina Cecconi..la Romanina   1 comment


Questa che vado a raccontarvi non è una bella storia, è una storia
fatta di soprusi, persecuzioni, sofferenze e violenze. Quello però che rende speciale questa vicenda è la voglia di emancipazione e di rivalsa sociale da parte della protagonista nell’Italia bigotta e puritana del dopoguerra. Parleremo però di una lotta, la lotta per la propria libertà. Questa, infatti è la storia di Romano Cecconi, diventato Romina. Romano era nata nel momento sbagliato (in piena guerra mondiale) e nel corpo sbagliato. Si, avete capito bene, nel corpo sbagliato, perchè lei si sentiva donna a tutti gli effetti, tant’è che dopo una lunga battaglia legale fu la seconda persona in Italia che ottenne sui documenti d’identità il riconoscimento del suo nuovo genere dopo l’operazione del cambiamento di sesso, contribuendo così ad aprire la strada alle legge 164, che permette tutt’oggi l’adeguamento del nome sui documenti. Nacque così a Lucca, era il 4 luglio del 1941. Schiaffi, litigi, umiliazioni, per tutti era la “donnicciola“, questa era la sua vita in una provincia lucchese diversa da quella attuale, legata a tradizioni antiche dove il “pater familias” era a capo di tutto il parentado, dove la società era ben distinta in uomini e donne, gli uomini lavoravano  e le donne accudivano ai figli, vie alternative non esistevano e quando esistevano si tenevano ben nascoste, erano considerate uno scherzo della natura o peggio ancora un abominio di Dio, una punizione divina. Ma a quei tempi Romano non ce la faceva a nascondere quella che era la sua vera e propria essenza e quella madre (n.d.r: nativa di Bagni di Lucca) un po’ manesca non ce la faceva a frenare gli istinti di quel ragazzetto:- Tante sculacciate gli davo da bambino. Visto come fanno le bambine, si girano, si atteggiano e si pavoneggiano e così faceva anche lui e io ero turbata, sicuramente non mi faceva piacere e io lo picchiavo e lui le pigliava, stava zitto e ricominciava nuovamente a fare in quel modo…-. La svolta della sua vita ci fu qualche anno dopo quando la mamma per fuggire dalla miseria più nera che attanagliava la valle nel dopoguerra decise di trasferirsi a Firenze e andare a lavorare in una trattoria. D’altronde uscire dalla provincia per Romina era come uscire da un incubo:- Non ho mai conosciuto il mio vero padre, quello che ci adottò era un brav’uomo, ma spesso si ubriacava e diventava violento. Dopo la sua morte siamo arrivate in una città che non conoscevamo, ma che ci sembrava bellissima-. A quindici anni Romina trovò il suo primo lavoro in San Frediano (n.d.r: un quartiere di Firenze), imparò a fare la doratura delle cornici, ma il mestiere durò ben poco, le distrazioni e al tempo stesso le opportunità che dava la città alle sue ambizioni andavano sfruttate… L’ambizione difatti era il palcoscenico, ma come ebbe a dire Romina: “Cosa resta per chi nasce in un corpo sbagliato? Solo due scelte: il palcoscenico o il marciapiede. Provai con il primo ma finì sul secondo…” Il suo esordio nel mondo dello spettacolo infatti fu al “Circo Gratta” e come un fenomeno da baraccone sulla locandina era presentata come “L’uomo-donna“, li si esibiva ballando il Bolero, si travestiva da Brigitte Bardot e da Milva, ma il suo numero venne cancellato, turbava i giovani… Tentò la fortuna poi nella lontana Parigi nel famoso locale “Chez Madame Arthur“, non raggiuse mai il successo, ma imparò ad assumere ormoni per ingrossare il seno. Tornò allora a Firenze e divenne con il tempo un personaggio conosciuto, le sue passeggiate notturne vestita vistosamente da donna in abiti

La Romanina

coloratissimi, lo sculettare in jeans strettissimi fecero nascere il mito de “la Romanina”. Cominciarono così i problemi seri… Lei e la sua amica Silvia incominciarono a frequentare il Parco della Cascine, ogni giorno la Buoncostume faceva retate, passava più il suo tempo in Questura che sul marciapiede e le multe a suo carico per oltraggio al pubblico pudore fioccavano e cominciavano veramente a farsi tante. Quei soldi fatti con il mestiere più antico del mondo servivano per la tanto sospirata operazione per cambiare sesso, non certo per pagare multe. Ma nonostante tutto il mito della Romanina continuava imperterrito nel suo successo nella Firenze degli sessanta:- Ero diventata una star, tanto che quando iniziai a fare la vita su e giù per via Tornabuoni (n.d.r: una delle vie del lusso di Firenze), la mia clientela era fatta di medici, avvocati, architetti. Io e la Silvia entrammo nel bel mondo di Firenze dalla porta principale. I ricchi ci invitavano nei loro attici con vista. Una volta mi ricordo che in una cantina vicino Santo Spirito, una taverna frequentata dalle grandi famiglie della città dove si facevano gli spogliarelli, ci fu una retata della

Buoncostume e finimmo tutti sulla rivista Specchio. Fu la mia prima copertina. Non c’era festa, night club o appuntamento mondano in cui io e la Silvia non fossimo le star. Ogni volta che succedeva qualcosa il giorno dopo mi ritrovavo sulle pagine de “La Nazione”, con titoloni che gridavano allo scandalo. Lo facevano per vendere più copie, naturalmente– Insomma Romina era diventata una vera e propria icona, di sè, se ne accorse anche il jet set internazionale che la voleva nei suoi salotti, era amica delle figlie di Chaplin e il suo flirt con Vittorio Emanuele di Savoia fece scandalo. La misura però era colma, pressioni politiche sulla questura di Firenze da parte della Democrazia Cristiana dicevano di chiudere questo scandaloso capitolo. La palla fu presa al balzo e in violazione dell’articolo 85 del codice Rocco alla Romanina gli fu imposto il coprifuoco, divieto di uscire di casa nelle ore serali e notturne e l’obbligo di vestirsi da uomo. Ovviamente Romina non avrebbe mai rispettato tali restrizioni e così le condanne aumentavano, per ben quattro volte le porte del carcere sia maschile che femminile si aprirono per lei e come se non bastasse subì perfino l’umiliazione delle visite psichiatriche. Arrivò così anche il 1968 e se quell’anno per l’Italia fu il momento della grande contestazione per Romina il suo ’68 si tradusse nel suo anno peggiore che coincise con la sua totale repressione. “Persona socialmente pericolosa” così recitava la motivazione per cui Romina venne spedita al confino, al soggiorno obbligato nel sud più profondo, a Volturino un paesino

Volturino (Foggia)

montano di duemila anime in provincia di Foggia, tanti “riguardi” non venivano prestati nemmeno ad un pericoloso mafioso. A dispetto dei giudici, per Romina quello fu il giorno della liberazione, non della repressione:-Quando scattò il confino, che ormai andavo per i trenta, mi dissi: ora o mai più. Casablanca era lontana, ma Losanna no. Prosciugai il conto in banca e scappai. Costava 700 mila lire quell’operazione. I soldi non bastarono. Scrissi a mamma: dimentica tutto, aiutami. Due giorni dopo eccola lì di persona, il mio cuor di mamma, con 500 mila lire in una busta, i risparmi di una vita. Sapeva di avermi ridato la vita per una seconda volta. Ci siamo guardate e abbiamo iniziato a piangere, come due grulle. Non avevo paura più di nulla, né del confino, né del ritorno alla solita vita. Che soddisfazione, due anni dopo, sventolare sotto il naso di un agente i documenti con scritto “sesso: effe”-. Nonostante questo al suo rientro in Italia la Patria non si dimenticò di lei, anzi fu lei che una volta rientrata dalla Svizzera si autodenunciò per scontare il famoso confino, e fu mandata inesorabilmente a scontare la sua pena a Volturino. Passati  tre anni nel paesino foggiano la sua fama si diffuse ancor di più. Romina aveva vinto, il suo stato di donna gli era stato

Romina Cecconi a Firenze

legalmente riconosciuto, aveva dovuto citare in tribunale perfino l’anagrafe, i tempi delle umiliazioni, delle violenze, dei processi e del carcere erano finiti, era arrivato il momento di aiutare le altre perchè non subissero la sua stessa sorte, ma non c’erano ancora leggi al riguardo, ma grazie a lei ce la fecero molte altre e lei le ha aiutò organizzando scioperi, cortei, andando in televisione e scrivendo un libro. Fu il 1976 e in tutte le librerie uscì “Io la Romanina: perchè sono diventato donna“. Il libro ebbe un successo clamoroso, la Firenze dei salotti buoni cominciò a tremare per gli eventuali nomi che li potevano comparire (n.d.r: i nomi non c’erano ma si potevano intuire). Fu poi invitata anche nelle trasmissioni da Enzo Tortora per parlare della sua storia e il famoso regista Mauro Bolognini nel 1978 girò su di lei un reportage dal titolo: “C’era una volta un ragazzo: la vita di Romina Cecconi“. Sulle sue vicende fu fatto perfino uno spettacolo teatrale con l’attrice Anna Meacci che ancora oggi viene rappresentato: “La Romanina-La vera storia del primo uomo in Italia diventato donna“. Ma oggi “la Romanina” che fine ha fatto? Romina è ancora in gran forma, quest’anno compirà ottant’anni e adesso vive a Bologna. Gli anni sono trascorsi e passate le luci della ribalta la sua vita si è svolta regolarmente, un marito, un divorzio, un fidanzato che la convinse a lasciare la strada e a comprarsi un edicola, proprio in quella Bologna in cui adesso vive. Per tutto il mondo l.g.b.t è ancora un mito per il resto è tutto un lontanissimo ricordo.

A questo link trovate l’album della Romanina

https://corrierefiorentino.corriere.it/foto-gallery/toscana/15_novembre_13/album-romanina-4793eb0e-8a1e-11e5-a5ea-16abec5c7342.shtml

A questo link trovate un trailer di Romina quando era giovane

la donna pipistrello

Romina Cecconi, è stata una delle prime persone transessuali a cambiare sesso in Italia, la prima famosa in Toscana. Romina, insieme a poche altre, come Maria Gioacchina (Giò) Stajano e Marcella Di Folco, è stata una pioniera, e anche un mito, non solo per le persone trans, con l’esempio della sua vita e non solo per quello che ha detto e scritto. Matteo Tortora regista di Livorno che vive a Firenze e Francesco Belais, giornalista, collaboratore del mensile Pride e di Repubblica, anch’egli Livorno, hanno voluto, con questa video-intervista, rendere un doveroso omaggio a questo personaggio, noto e amato da molti a Firenze, ma anche perseguitato dalle istituzioni e dai benpensanti. Attraverso il racconto di Romina stessa e la visione di materiale d’epoca, il documentario ripercorre la vita di Romina Cecconi, che lei stessa aveva raccontato in una sua nota autobiografia. Nel documentario si è cercato di porre anche l’accento sull’importanza che il caso di Romina Cecconi ha avuto nei riguardi del movimento per i diritti delle persone transessuali. La storia di Romina è un tassello importante di una storia, solitamente omessa nei racconti ufficiali: la storia della transessualità in Italia. Romina Cecconi, è stata la seconda persona in Italia ad ottenere sui documenti di identità il riconoscimento del suo nuovo genere, dopo l’operazione del cambiamento di sesso, contribuendo cosi ad aprire la strada alla legge 164, che permette l’adeguamento del nome sui documenti, ottenuta grazie alle battaglie del movimento per i diritti dei transessuali (M.I.T.) e del Partito Radicale. Romina, nata Romano Cecconi, è nata a Lucca, il 4 luglio del 1941. Cresciuta in un collegio gestito da suore, ha lì le sue prime esperienze sessuali. Tornata a casa dalla madre, una donna piuttosto manesca, Romina inizia ad uscire la sera e a vestirsi da donna. Un giorno decide che era arrivato il momento di andare via di casa, e con una amica se ne va a Firenze, senza soldi e con l’ambizione di diventare un’artista. Trovò posto in un circo itinerante, il Gratta, dove ballava il Bolero e si travestiva da Brigitte Bardot, ma il suo numero venne cancellato perché dava scandalo ai giovani. Con la sua amica tentò poi la fortuna a Parigi, nel famoso locale “Chez Madame Arthur”. Non raggiunse il successo, ma imparò ad assumere ormoni per ingrossare il seno. Tornata a Firenze divenne col tempo un personaggio conosciuto. Per le sue passeggiate notturne, vestita vistosamente da donna, riceveva continue multe dalla buon costume. Per pagare le multe e risparmiare i soldi per l’operazione del cambiamento di sesso, Romina iniziò a prostituirsi sul Lungarno col nome d’arte “la Romanina”. Romina veniva anche spesso condannata, per violazione dell’articolo 85 del codice Rocco, ai soggiorni obbligati (il ‘coprifuoco’) con l’obbligo di firma, di vestire da uomo e di restare chiusa in casa la sera. Ovviamente Romina faceva di tutto per non rispettare tali obblighi e le condanne aumentavano. Ha dovuto subire visite psichiatriche (al manicomio di Montelupo). E’ stata quattro volte in carcere, sia maschile che femminile. Un giorno Romina era arrivata anche al punto di voler farla finita ed ha cercato di gettarsi fuori dalla macchina della polizia in corsa. E’ stata anche condannata come “persona socialmente pericolosa” a tre anni di confino a Volturino di Foggia un paesino di 2000 anime. Con già in mano il foglio di via per il confino, Romina nel giugno del 1972 scappò in Svizzera, a Losanna, dove aveva già preso l’appuntamento con il chirurgo per farsi operare, il 19 settembre. In Svizzera, in attesa dell’operazione, frequentò i locali notturni ed entrò così in contatto con un gruppo di personaggi del bel mondo. In un ricevimento a Ginevra, conosce il principe Vittorio Emanuele di Savoia, allora 35-enne. Il principe gli salta addosso nella toilette del locale (il principe non ha mai smentito). Quando, ormai operata rientra in Italia, Romina deve scontare il confino a Volturino, dove lei ovviamente dà subito scandalo presentandosi in minigonna. Il suo arrivo provoca molto rumore in tutto il foggiano, dove subito si diffonde la notizia dell’arrivo del “uomo-donna”. Le donne di Volturino preferiscono chiamarla “zucculona”. Tornata a Firenze le cose migliorarono. Ottiene per vie legali il riconoscimento del suo nuovo stato anagrafico e si sposa, per avere un ulteriore riconoscimento ufficiale, con Antonio, uno studente greco, bisessuale e segretario del Fuori. Poiché da tempo sul quotidiano la Nazione, apparivano spesso articoli malevoli contro di lei, Romina si decise a prendere l’iniziativa e con l’aiuto di un giornalista suo amico, nel 1976, pubblica con l’editore Vallecchi, un libro sulla sua vita dal titolo “Io, la ‘Romanina’: perché sono diventato donna”. Il libro, stampato in ventimila copie, ebbe un grande successo, soprattutto a Firenze, sebbene molte librerie lo tenessero nascosto. In molti in quella occasione hanno tremato, temendo che il libro contenesse i nomi degli amanti occasionali di Romina. I nomi non c’erano, ma i vari personaggi si potevano intuire. Poco dopo Enzo Tortora invitò Romina a parlare della sua storia in un canale televisivo berlusconiano. Le riviste popolari dell’epoca iniziarono a dedicarle un’attenzione morbosa e grazie alla sua bellezza apparve anche nuda su “Playmen”. Col tempo gli omaggi a Romina, si sono moltiplicati. Del 1978 è un reportage della RAI di Mauro Bolognini e Guido Sacerdote: “C’era una volta un ragazzo (La vita di Romina Cecconi)” di 30 minuti, trasmesso in tarda serata, in cui tra l’altro Romina ritorna a Volturino. Nel 2005 il regista Giovanni Guerrieri con l’attrice Anna Meacci hanno tratto dal libro di Romina uno fortunato spettacolo teatrale: “La Romanina – La vera storia del primo uomo in Italia diventato donna”. Nel 2011 è stato fatto anche un fumetto: “In un corpo differente” (Comma 22 edizioni) di Fabio Sera, un vicino di casa di Romina. Oggi Romina è una elegante signora di una certa età, che vive da molti anni a Bologna, conducendo una vita tranquilla e rispettata in compagnia del suo cagnolino. N.B. Per i pochi che ancora non lo sapessero, Romina era soprannominata dalla stampa popolare ‘La donna-pipistrello’ in quanto ‘metà topa e metà uccello’. (MM)